DISCORSO DIVINO

Devozione onnipotente

19 maggio 2000

Solo la devozione vi porta alla più alta meta spirituale.
Solo la devozione vi fa superare i fastidi del vivere terreno.
Solo la devozione vi rende sensibili alle sofferenze degli altri.
Solo la devozione vi offre l'estrema liberazione dall'oceano del samsâra.



Devozione è amore di Dio

Incarnazioni dell'amore, studenti e studentesse, l'India, con la sua forza spirituale ha sempre trasmesso fin dall'antichità al mondo il messaggio della devozione. Per devozione non s'intende semplicemente ripetere il nome di Dio, recitare delle preghiere, far meditazione o raccogliersi in adorazione. Essere devoti significa avere un intenso amore per Dio: un amore puro, incrollabile, altruista, libero dalle impurità conseguenti ad azioni passate, è devozione. Un amore siffatto non subisce condizionamenti di sorta, non è costretto da limiti o regole. È dall'esperienza dell'amore che nasce la devozione, non già dall'accozzaglia di desideri che la corrompono.
Non può certo dirsi devozione un amore circondato da desideri.

Quali sono i desideri leciti? Solo il desiderio di Dio, escludendo tutti i desideri materiali. L'ansia di Dio non ha nulla a che fare con i desideri del mondo, che appartengono alla sfera fisica, profana, e sono effimeri. Tra due sentimenti d'amore, tra l'amore del devoto e l'amore di Dio non c'è posto per il desiderio, poiché l'amore che sgorga dal cuore di un uomo pio ha bisogno di arrivar dritto al cuore di Dio; è un amore che non deve andar soggetto assolutamente ai cambiamenti d'umore, deve rimanere immutabile sia nella gioia sia nel dolore.

La devozione dei Pândava

Dharmaja, il fratello maggiore dei Pândava, è diventato simbolo di una
devozione che non conosce sbandamenti. La sua devozione non ha
vacillato
allorché sua moglie fu insultata e umiliata davanti a tutta la corte;
egli
non si è lasciato opprimere dal dolore quando perse il figlio di
Arjuna, il
beniamino dei fratelli; non perse la calma quando i figli dei Pândava
furono
sgozzati da Ashvattâma, figlio di Drona, il quale era il suo guru.
Inoltre,
seppe mantenere la stessa imperturbabilità anche quando, abbandonati
tutti
gli agi del regno, dovette trascorrere del tempo in una fitta foresta,
nutrendosi solo di foglie e radici.

In ogni momento, in ogni situazione, un solo pensiero occupava la sua
mente:
il nome di Krishna. Ed egli non era solo; anche sua moglie Draupadî era
abituata a tenere a mente unicamente il nome di Krishna. Dopo l'eccidio
dei
figli dei Pândava, Arjuna catturò Ashvattâma. Draupadî, tuttavia, in
preda
al dolore, si prostrò ai piedi del malvagio:

"Erano dei ragazzi incapaci di far del male. Non ti avevano irritato né
offeso; non erano nemmeno equipaggiati per una guerra, né ti avevano
ingannato. Li hai trucidati nel cuore della notte, senza che potessero
difendersi. Come han potuto le tue mani eseguire un delitto così
efferato? I
miei mariti sono cresciuti alla scuola di tuo padre Drona, dal quale
hanno
appreso le arti belliche nonché il tiro all'arco. Ti sembra giusto aver
sterminato spietatamente gli allievi di tuo padre?"

Bhîma, (secondogenito dei Pândava) che assistette a quell'accorato
lamento,
non ebbe la forza di sopportare il sopruso: anche i suoi figli erano
rimasti
uccisi.
"Il dolore insopportabile per la morte dei figli, ha fatto perdere la
testa
a Draupadî. Come spiegare altrimenti la sua stoltezza nel piegarsi ai
piedi
di un assassino così malvagio? Che? Lasciarlo? Io l'ammazzerò; gli
fracasserò il cranio per terra con le mie stesse mani!"

Quando tutti i Pândava si avventarono contro Ashvattâma, Draupadî li
fermò:
"Non uccidetelo! Quest'uomo è un valoroso guerriero, autore di celebri
imprese belliche. Non potete ucciderlo. Piuttosto rasategli il capo e
rimettetelo in libertà. Sarà fatto oggetto di scherno e avrà per sempre
una
pessima nomea. O Partha, è forse giusto uccidere chi è pavido, codardo,
incosciente, demente, trepido e pusillanime?"

Così, sebbene Ashvattâma avesse massacrato tutti i figli di Draupadî,
ella
non conservò alcun rancore verso di lui. Tra i fratelli Pândava,
Dharmaja e
Draupadî sono due gemme particolarmente preziose. Draupadî in varie
occasioni esternò e descrisse la natura di Krishna.

Klim Krishnaya Govindaya
Gopijanavallabhaya Shvaha
Offriti a Krishna, a Govinda,
Protettore delle mandrie,
a Colui che è caro alle gopî.

Qual è il significato di questo verso? Klim significa "terra";
Krishnaya è
l'acqua; Govindaya è il fuoco; gopî jana vallabhaya è l'âkâsha,
l'etere.
Questo fu il modo con cui Draupadî percepì la forma di Krishna nei
cinque
elementi, e questa sua virtù, questa sua devozione fu resa nota in
tutto il
mondo.

Anche Dharmaja ebbe una devozione tanto intensa. Non ci fu mai momento
in
cui egli avesse mosso delle critiche a Krishna; non Gli si rivoltò mai
contro, anzi, Lo adorò sempre con una mente piena d'amore e
costantemente
concentrata su di Lui. Qui sta proprio il nocciolo di tutta la cultura
spirituale dell'India. La devozione non è la semplice attuazione delle
classiche nove vie, non consiste in culti, riti o nella gioia che dà il
cantare bhajan. La sorgente che zampilla da un cuore e da una mente
pieni
d'amore ha la forma di lacrime di gioia.

Offrite a Dio la foglia del corpo

Nei Veda si esorta ad "offrire una foglia, un fiore, un frutto e
dell'acqua". Che significato ha una foglia? È la foglia di bilva (cara
a
Shiva) o di tulasî (cara a Vishnu), o qualche altra foglia? Il termine
sanscrito usato, patra (foglia), non sta ad indicare un certo tipo di
foglia
in senso botanico, ma indica il corpo. Dunque, il corpo è la foglia che
va
offerta. Nessuno sa quando una foglia cadrà e seccherà; così pure
nessuno
può sapere quando giungerà il momento in cui la foglia del corpo cadrà
per
poi imputridire o esser data alle fiamme. Ecco dunque, per foglia
s'intende
il corpo.

"O Signore, il mio corpo è come una foglia. Te l'offro, perché so che
questa
è la foglia che Tu vuoi da me, non già le foglie di bilva o di tulasî
che Ti
sto portando: non sono queste le foglie che Tu gradisci: si seccano
subito,
marciscono, bruciano. La foglia che tu vuoi è il mio corpo, Tuo dono,
che io
ti rendo presentandolo come un'offerta".

"O Signore, ti offro il mio cuore, dono del Tuo Amore.
Che altro potrei darTi?
Depongo ai Tuoi Piedi con deferenza la mia offerta".

"Swami, che tipo di foglia vuoi che Ti offra? Il mio corpo è la foglia.
Eccolo. Accettalo, ti prego".

Poi si offre un fiore (pushpa). Ma che tipo di fiore? Il fiore del
cuore,
non i fiori che comprate al mercato, come le rose o i gelsomini, che al
mattino son freschi e il pomeriggio son già appassiti. Il fiore del
cuore
non appassisce; è puro, rigoglioso, dolcemente profumato. Il cuore
pieno del
nettare d'amore sarà dunque il fiore da offrire.

E il frutto? Quale sarà il frutto che il Signore vuole? Gradirà un
guava?
Una mela? "Che tipo di frutto vuoi, o Signore. Tu non vuoi un frutto
che
nasce dagli alberi. La mia mente è il frutto che vuoi, e io Te
l'offro".

Infine l'acqua. Che cosa starà ad indicare l'acqua? Servirà dell'acqua
di
rubinetto, dell'acqua di un fiume qualsiasi, o l'acqua del Gange? "No,
mio
Signore. Non è questa l'acqua (toyam) che Tu vuoi. L'acqua che vuoi da
me è
quella delle lacrime di gioia che sgorgano dagli occhi quando si
contempla
Te e quando, beatificati dall'unione con Te, si sperimenta la natura
del Tuo
Amore. Quelle lacrime di gioia sono l'acqua che Ti voglio offrire; è
quella
l'acqua che Tu desideri".

Queste sono dunque le offerte: le foglie, i fiori e l'acqua che il
Signore
vuole da noi, non simboli di scarso valore e di breve durata.

Il peso di Krishna

Satyabhâma ebbe perfino l'idea di conquistarsi Krishna con la ricchezza
e il
denaro. Nessuno potrà mai comprare Dio a peso d'oro, poiché non c'è
unità di
misura che possa raffrontarsi con Dio. L'unica cosa con cui potrebbe
misurarsi è l'amore. Satyabhâma, essendo ricchissima, era diventata
orgogliosa. Alla fine, capito che non poteva averLo in quel modo, si
sentì
rattristata e si prostrò ai piedi di Rukminî, consorte di Krishna, la
quale
stava in quel momento celebrando la Tulasî pûjâ, (il rito col quale si
offrono a Dio foglie di tulsî).

"Mia giovane sorella, - le disse Rukminî - non hai motivo di sentirti
così a
terra. C'è un Dio per tutti, che non fa preferenze di persone: Egli
abita
nei nostri cuori e nel profondo di tutti gli esseri viventi. Questo Dio
è
benigno e si sottomette a tutti i devoti; quindi, non puoi averLo tutto
solo
per te. Non essere così egoista da volerLo riservare unicamente alla
tua
esperienza personale!"

Così dicendo, Rukminî si unì con Satyabhâma e andò con lei. C'era lì
Nârada,
maestro di saggezza, il quale, nell'intento di distruggere l'ego di
Satyabhâma, disse: "Madre Rukminî, riusciresti a pesare Krishna?"
"Nârada, -
rispose - La bilancia giusta per pesare Krishna è il Suo Nome, giacché
il
Nome equivale alla Forma e ha lo stesso peso".

Nârada però non demordeva: "Madre, devi ammettere che un nome non ha
una
forma specifica, mentre Krishna ha una Sua forma fisica; quindi,
occorre che
sulla bilancia si confrontino due forme della stessa natura, visibili".
Allora Rukminî pose sul piatto della bilancia la misera foglia di tulsî
che
aveva in mano.

Foglia, fiore, frutto e acqua.
Se è vero che Tu ti sottometti al devoto,
sia questa foglia di tulsî
a determinare il Tuo peso.

E, mentre posava la foglia sul piatto, disse: "Krishna!". Così Krishna
fu
pesato col Suo nome. La fogliolina aveva un peso straordinario,
incredibile!
Infatti, Dio si fa catturare dalla devozione; non esiste altro che Lo
conquisti, né esiste altro al mondo che possa reggere il peso di Dio
all'infuori della devozione.

Per questo, fin dall'antichità, nella cultura dell'India si è sempre
dato un
gran rilievo alla devozione. Non c'è ricchezza più potente della
devozione;
nessun peso conta maggiormente sulla bilancia di Dio. In ciascun essere
umano è possibile trovare una devozione di quel tipo.

Le sette ruote dell'uomo

In ogni essere umano esistono sette ruote, che si chiamano shat-chakra,
i
Sette Chakra. Molte sono le interpretazioni che si sono date a queste
"ruote". In ogni caso, fra tutte, ve ne sono due che hanno
un'importanza
particolare: lo hridaya chakra, o "chakra del Cuore", e il sahasrâra
chakra,
o "chakra dai Mille Petali".

Il chakra del Cuore viene anche detto "Loto del Cuore" e il sahasrâra
chakra
si chiama anche "Loto dai Mille Petali". Se il devoto riesce a
comprendere
bene la natura di questi due chakra, avrà il Divino dalla sua parte e
Dio lo
asseconderà. Ciascuna di queste sette ruote è dotata di otto petali;
nel
chakra del Cuore servono ad emanare luce. Ogni petalo, comunque, si
presenta
secondo caratteristiche sue proprie, come ad esempio nel
sahasrâra-chakra,
il Loto dai Mille Petali, dove ogni petalo si ripiega sull'altro.

In ciascun petalo ci sono i sedici aspetti del Divino. Possiamo dire
che
Dio, con tutti i Suoi sedici aspetti, dimora in ogni petalo. Perciò, se
si
considera il Loto dai Mille Petali, i sedici aspetti di Dio diventano
16.000
e simboleggiano le sedicimila gopî che si offrono a Dio. Chi è dunque
il
loro Padrone? A chi esse appartengono? A Dio solo.

Sîtâ e Râma

Quando è Dio che lo ordina, ognuno ha il diritto di raccogliere questi
petali, poiché essi sono proprietà di Dio, che esercita su di essi ogni
autorità. Nessuno può fruirne senza un preciso comando divino.

Vi porto un esempio. Sîtâ, che si chiama anche Bhûjata, è la figlia
della
Madre Terra e consorte di Râma. Râma, dunque, che ha su di lei completa
autorità, è il padrone di Sîtâ, il suo signore (Sîtâ-pati). Râvana,
ignorando il potere di Râma, rapì Sîtâ.

Sapete che cosa gli accadde per questa sua arroganza. Soccombette a
tutte le
difficoltà, subendo perdite a non finire; tant'è che sua moglie
Mandodarî
gli disse: "Râvana, Râma è la manifestazione stessa del Signore Dio,
Nârayana. Lei è la Madre Sîtâ, sua casta consorte. Hai commesso un
grosso
sbaglio nel portarla via; anzi, no: non è un errore, bensì un grave
abbaglio. Come hai potuto prenderla con te senza il consenso e il
comando di
Râma? Dunque, almeno adesso, riportala a Râma".

Ma, come dicono le Scritture, Vinâsa kâle viparîta buddhih: "In tempi
di
malvagità e distruzione, perverse sono le menti e maligni i propositi".
Così, il demone non ascoltò per niente la moglie.

16.000 gopî

La stessa appartenenza a Dio in persona riguarda anche le sedicimila
gopî,
ciascuna con tutte le sedici caratteristiche divine. Anche il Loto dai
Mille
Petali si presenta con la forma di otto petali, da dove i saggi antichi
trassero esperienze di estasi: quella beatitudine era prodotta proprio
dai
mille petali, ossia dal sahasrâra-chakra.
In sostanza, se si vuole raggiungere quel tipo di divinità (che trova
espressione nelle esperienze estatiche), basta che stiamo agli ordini
di
Dio.

Gli otto petali rappresentano otto regine; i mille petali, ciascuno con
sedici caratteristiche divine, rappresentano le 16.000 gopî e le gopî,
riunite tutte insieme, costituiscono il Loto del Cuore di Krishna,
poiché in
questo Loto c'è un gran numero di petali, che formano un tutt'uno con
il
Loto stesso.

Se vogliamo raggiungere Dio, dobbiamo diventare uno dei tanti petali
del
Cuore di Dio. E come dovrebbero essere questi petali? Occorre rimanere
in
uno stato di pace assoluta, senza aspirare al godimento dei frutti di
ciò
che si fa, non aspettando ricompense per le azioni compiute. Il petalo
sarebbe così ricco di nettare, il nettare dell'amore che va a riempire
il
cuore e porta all'esperienza della beatitudine.

L'amore delle gopî per Krishna

Le gopî, che seppero riconoscere il Divino in Krishna, Lo descrissero
in
molte maniere. Ci fu un tempo in cui soffrirono intensamente. Krishna
se
n'era andato da Mathurâ e non vi avrebbe fatto più ritorno. "Che senso
ha
vivere per noi? - fu il lamento delle pastorelle - Non è assolutamente
concepibile vivere senza Krishna. O Krishna, vieni a trovarci almeno
una
volta; dopo di che te ne andrai".

Krishna ascoltò la loro preghiera, e venne dopo un po' di tempo. Trovò
le
gopî in uno stato pietoso, trascurate, scheletrite; non mangiavano più,
non
bevevano. Avevano perso ogni interesse per la vita e avevano offerto i
loro
corpi in sacrificio a Krishna. Allora Krishna volle che riprendessero a
mangiare come un tempo, che tornassero ad essere felici. Ma esse
dissero:
"Di che ci nutriremo, o Krishna? La melodia del Tuo flauto è il nostro
cibo;
non esiste miglior alimento per noi"

Intervenne Râdhâ:

Intonaci un canto, o Krishna; le Tue parole sono dolci come il miele.
Parlaci, Signore, e rallegraci.
Condensa tutta l'essenza dei Veda nel suono di Brahma;
il Tuo Flauto vibri di quel messaggio
ed erompa il Suo Suono nell'Universo.

Come cantare? (Swami ripete la seconda parte del canto).
Poi Krishna, in un cespuglio lì vicino, strappò un ramo da una canna di
bambù e ne fece un flauto, con cui eseguì un canto che fece ascoltare
alle
pastorelle. Disse Râdhâ: "Ho vissuto in attesa di questo canto, ed ora
ne
son paga". Pronunciate queste parole, a metà della canzone, lasciò il
corpo.
Da quel dì, Krishna non portò più con sé il flauto.

Allo stesso modo con cui il devoto offre se stesso a Dio, anche Dio
offre Se
stesso al devoto. Yat bhavam, tat bhavati: "Come le emozioni, così i
risultati"; i sentimenti di Dio si adeguano a quelli del devoto. Se
continuate a pensare "O Signore, Signore!", Egli penserà sempre "O
devoti,
devoti!" (applausi). Dio non avrà altri pensieri: se i devoti non
faranno
che pensare a Dio, Egli non farà altro che pensare ai devoti. Quindi,
non è
possibile per nessuno intromettersi tra il devoto e Dio.

I Pândava e Krishna

All'epoca dei Pândava, questo era il tipo di devozione che pervadeva il
mondo intero. Quante difficoltà dovettero sopportare, quante sofferenze
e
umiliazioni dovettero subire! Ma, anche in quei frangenti, non vennero
mai
meno dal ripetere il nome di Krishna. Essi cantavano: "L'unico dolce
per noi
è quel nome; è il nostro unico cibo, la nostra unica sete". E così, a
furia
di ricordare e ricordare, ripetere e ripetere il nome di Krishna,
facendo
penitenze e sacrifici, i Pândava resero santa la loro epoca, sacre le
loro
esistenze.

"Krishna viene per primo nella nostra vita; le relazioni sociali e
l'esercito vengono dopo. Noi Pândava veniamo per ultimi", dicevano i
Pândava, manifestando la loro adorazione per Krishna. Ma i Kaurava non
si
comportavano allo stesso modo. Essi dicevano: "Per prima cosa veniamo
noi;
poi le relazioni con gli altri. Alla fine, Krishna". Ma così, mettendo
Krishna alla fine, decretarono la loro fine! Last, lost.

Perciò, nella nostra vita Dio dev'essere al primo posto; solo così
troveremo
protezione in tutto il mondo. Dove andrebbe a finire il mondo senza
Dio? Il
mondo esiste perché Dio esiste! Un mondo ove non ci fosse Dio, non
sarebbe
assolutamente un mondo.

Rifugio in Dio

Jagat significa "mondo"; ja, vuol dire "che viene" e gat, "che va". Il
mondo
è qualcosa "che va e viene", è in perenne movimento e, perciò, ha fine.
Dio
invece non si muove, è immutabile ed eterno. Se state dalla parte di
Colui
ch'è eterno, otterrete ciò che è eterno, sperimenterete
l'Incorruttibile.

Incarnazioni dell'Amore, non importa quante preghiere, penitenze,
meditazioni ed esercizi yoga facciate; ciò che importa è rifugiarsi in
Dio.
Se vi abbandonate a Colui che non tramonta mai, godrete una gioia
intramontabile. Non desiderate cose effimere, non fate scelte di
falsità. Il
mondo è caduco, non dura per sempre.
Krishna, nella Bhagavad Gîtâ afferma: "Effimero e di scarsa durata è il
mondo. Rivolgi continuamente la tua preghiera a Dio". Tutto ciò che
appartiene al mondo è marcescibile e pieno d'infelicità: oggi c'è e
domani è
già svanito. Ma Iddio non è mai uno che va e viene.

Krishna ha l'aspetto di un sovrano che non sale al trono né mai abdica
al
regno. Le gopî trascorsero le loro esistenze pregandoLo in varie
maniere,
adorandoLo e sperimentandone la beatitudine. Nessuno può descrivere ciò
che
esse provarono; in realtà, nessuno può definire la dolcezza del Divino
o la
qualità dell'amore che c'è in Dio. Qualsiasi vocabolo si usasse, non
renderebbe mai l'idea. Chi potrebbe dire com'è Dio e in qual modo
potrebbe
darne una descrizione?

Il maharishi Roma

Ecco, dunque, la ragione per cui i Pândava preferirono trascorrere il
loro
tempo glorificando il nome di Krishna.
Il Signore farebbe qualsiasi cosa per un Suo devoto, ricorrendo anche,
se
necessario, a qualcosa d'ignobile. Vi ho parlato ieri dell'undicesimo
anno
di esilio passato dai Pândava in foresta, nell'âshram del maharishi
Roma.
Draupadî e Dharmaja passeggiavano insieme, quando Draupadî scorse un
frutto
maturo, di dimensioni notevoli. "Signore, - disse - dividiamocelo".

In quel preciso istante, Arjuna, che li stava cercando, scoccò una
freccia
verso il frutto, che cadde. Si chinò per raccoglierlo, ma non vi
riuscì,
tant'era pesante. Allora ci provò Dharmaja. Ancora niente. Si unì nello
sforzo anche Draupadî, ma anche in tre non ci riuscirono a smuoverlo di
un
solo centimetro. Allora Dharmaja disse:

"Non si muove foglia che Dio non voglia!
E non si batte ciglio se manca il Suo consiglio.
Eppure gli stolti, che non han discernimento, credono che tutto sia per
loro
intendimento.
Ma anche per loro nulla avviene se Dio non interviene!
Senza il tuo volere, o Krishna, nemmeno questo frutto può muoversi!"

Mentre stavano sudando sette camicie nel tentativo di raccogliere quel
frutto, giunsero sul posto Bhîma, Nakula e Sahadeva. La presenza di
Bhîma li
rallegrò molto, poiché sapevano che, sia fisicamente che
intellettualmente,
aveva una forza titanica, simile a quella d'un elefante. Bhîma prese il
frutto con la sua mano sinistra, ma il frutto non si mosse. Ci riprovò
con
due mani. E fu tutto inutile.

Così, con le forze di tutti e cinque i fratelli Pândava, che
diventarono sei
con Draupadî, non fu possibile sollevare il pesantissimo frutto.
Intanto i
capelli del saggio Roma, che si era dedicato a rigide penitenze per
quel
frutto, si erano alzati e incominciarono a muoversi ondeggiando qua e
là.
Quel frutto è chiamato Amrita Phala, cioè "frutto dell'immortalità";
chi lo
avesse mangiato non avrebbe più avuto fame né sete. E poiché Dio è
immortale, mangiare questo frutto avrebbe significato avere esperienza
del
Divino.

Roma era un nobile saggio; i suoi capelli dunque si stavano levando
gradualmente, tanto da giungere ad avvolgere i Pândava. Draupadî ebbe
paura
e si mise ad invocare Krishna: "Krishna, tante volte ci hai protetto.
Bisogna che tu intervenga anche ora. Le situazioni sono differenti, lo
so,
ma anche questa è una di quelle emergenze in cui Tu devi salvarci. Noi
non
abbiamo altri che Te". Poi gridò forte: "Krishna, protettore degli
indifesi,
salvaci!"
E Krishna arrivò, sorridente: "Sorellina, che c'è da gridar tanto?
Avevi
tanta voglia di quel frutto, no? Orbene, mangiane!" "O Krishna, lo
volevo
senza conoscerlo. Noi siamo degli umani, non riusciamo a capire cose
tanto
elevate. Perciò, in questo momento devi proteggerci".

Krishna allora escogitò un piano; e quando il Signore propone un
progetto o
dice qualcosa o fa qualcosa di particolare, quale che sia, è sempre e
solo
per il devoto, mai per Sé. Allora disse: "Io non posso eseguire questa
cosa,
poiché navigo nella mente del rishi; Io dimoro nel suo cuore ed esso,
come
quello di tutti gli altri, Mi appartiene. Quindi, Dharmaja, tu insieme
con
Draupadî andrai dal saggio, al suo âshram: proprio ora è in procinto di
lanciare contro di voi una maledizione. Andate e, quando verrò Io, non
aprite bocca, non rispondete a niente. Osservate il massimo silenzio.
Vi
raccomando; state attenti!"

I Pândava arrivarono alla residenza del saggio. Roma era furibondo e
stava
per scagliare una maledizione contro i Pândava, proprio mentre stavano
per
varcare la soglia dell'âshram. Pieno di rabbia, Roma chiese loro: "Chi
siete? Da dove venite?" Nel preciso istante in cui stava avendo inizio
quella conversazione, fece la sua apparizione Krishna e, poiché Egli
vaga
nella mente dei saggi, il rishi, al vederLo, esclamò: "Swami, come mai
sei
venuto al nostro âshram? Quale fortuna mi tocca! È sicuramente il
risultato
di alcuni miei meriti. Che fortuna!" E avanti di questo passo.

Mentre il saggio continuava a decantare le grandezze di Dio, Krishna
fece lo
shâshtanga namaskar (chinandosi con tutto il suo corpo steso sul
pavimento)
davanti a ciascuno dei cinque Pândava: fece namaskar a Dharmaja, poi ad
Arjuna, e a Bhîma, a Nakula e a Sahadeva. Infine lo fece pure a
Draupadî.

Dopo che Krishna fece namaskar persino a Draupadî, il saggio Roma
rimase
molto sorpreso, e pensò fra sé: "Krishna è il Signore in carne e ossa;
se
lui fa il namaskar a costoro, saranno più importanti di Nârâyana!"
(risa
dell'uditorio). Allora, anche il saggio si prostrò ai piedi dei
Pândava. Con
quel gesto, egli stesso si sottomise a loro. La sua ira si placò, e
Krishna
concluse con un triplice "Shânti".

Sapete perché si dice per tre volte "Shânti"? Per auspicare pace a
livello
fisico, psicologico e spirituale. Krishna dunque ripeté tre volte
"Shânti",
come a dire: "Abbiate pace nel corpo, nella mente e nello spirito".

Il saggio Roma, dopo il gesto di Krishna, cercò di trovare delle
spiegazioni: "Krishna, sei un mistero per me. Perché Tu, che nessuno
può
eguagliare, ti sei chinato ai piedi di queste persone? Che cosa vuoi
dire
con questo?" E Krishna: "O savio, Io gironzolo tra i pensieri dei
devoti, i
quali possono catturarMi con facilità e averMi sotto il loro controllo.
Io
sto con chi, avendo un'ardente devozione, in qualunque circostanza e
difficoltà, non si dimenticano mai di Me. Io sono schiavo del devoto,
sono
nelle sue mani, sono sua proprietà".

A quel punto, il saggio Roma si rese conto della forza e delle
possibilità
dei Pândava. Rivoltosi a loro, li benedisse: "Quel frutto è per voi
soli;
abbiate una vita tranquilla, lunga, salubre, felice e pacifica". E, in
effetti, i Pândava ebbero una vita lunga, felice, salubre e pacifica.
Godettero salute piena e in salute varcarono le porte del paradiso.
Questo è
il significato del frutto dell'immortalità. Si resero degni della
Grazia di
Krishna e meritarono anche la benedizione del saggio.

Il voto di Bhîshma

Con la sola devozione a Dio, purché costante in noi, possiamo avere
qualsiasi cosa: Dio ci verrebbe incontro come un servo! Nella storia
dell'Avatâr Krishna potete riscontrare molti esempi di ciò.

Era il nono giorno dacché la guerra era incominciata, e Bhîshma fece un
voto: "Domani, entro sera, dovrò eliminare i Pândava".
Draupadî era tristissima: "Ahimè, che posso fare per proteggere i miei
mariti, Krishna? Ti prego, benedicimi perché abbia una lunga vita
coniugale". "Aspetta. Vedrò, vedrò", rispose Krishna. Quando il Signore
dice
"Vedrò", è cosa certa che vedrà. E quella stessa sera persero la
battaglia e
Bhîshma cadde sul campo. Era notte e tutti stavano dormendo.

Allora Krishna disse a Draupadî: "Ecco il momento giusto. Bhîshma è
instancabile; siccome non riesce a dormire, sta passeggiando avanti e
indietro nella sua tenda".
Infatti, Bhîshma era oppresso da una frotta di pensieri: "Perché ho
maledetto la stirpe dei Pândava, che sono la personificazione della
giustizia? Mi sono ripromesso di sterminarli, ma come posso eliminare
delle
incarnazioni del dharma?" Tormentato da questi pensieri, camminava su e
giù.
Erano ormai le dieci di sera, un'ora in cui dormivano tutti, tranne
lui.

Krishna suggerì a Draupadî di recarsi alla tenda di Bhîshma e di
prostrarsi
senz'indugio ai suoi piedi. Le principesse a quel tempo usavano portare
delle scarpette che facevano un rumore particolare... kju, kju, kju
(Swami
ne imita il suono, di difficile trascrizione). Anche Draupadî, essendo
figlia di un re, le indossava e con quelle si recò alla tenda di
Bhîshma.
Per questo, Krishna la fermò a metà strada e le disse: "Se Bhîshma ode
il
rumore delle tue scarpe, capirà chi sta per arrivare. Quindi, è meglio
che
tu te le tolga".

Appena Draupadî si ebbe tolte le scarpette, Krishna le avvolse nella
parte
superiore della sua veste nascondendosele sotto l'ascella; poi disse:
"Va'
prima tu", e la mandò avanti. Draupadî giunse sulla soglia della tenda
di
Bhîshma, assorto in tutti i suoi pensieri; mentre si chinò ai suoi
piedi, i
braccialetti che portava ai polsi tintinnarono, attirando la sua
attenzione.
Bhîshma, che, senza guardare in volto la persona che gli stava davanti,
dal
suono dei bracciali aveva dedotto una presenza gentile, pronunciò
questo
augurio: "Che tu abbia una lunga vita coniugale!"

Draupadî allora si alzò dicendo: "Mi basta questo". Ma quando la donna
si
alzò, egli la vide: "Draupadî! Tu qui? Perché? Chi ti ha indotto a
venir
qui, usando questo stratagemma?" "Nonno - rispose lei - me lo domandi?
Se tu
sei il nonno, il Pitâ-mahâ, c'è una sola persona che mi ha suggerito
questo
stratagemma, ed è Krishna. È stato Krishna a portarmi qui". E così
raccontò
tutto quanto era avvenuto.

Mentre stava parlando, entrò Krishna. Da una parte Bhîshma ne fu felice
e,
da gran saggio qual era, disse: "È un'ottima cosa che i Pândava siano
stati
protetti, perché essi sono espressioni di rettitudine, persone ideali
per la
nazione e molto pie. Che altro potrei desiderare se non che sia
protetta
gente come questa?" A forza di camminare avanti e indietro, si era
stancato,
e perciò andò a sedersi.

"Krishna, - disse, scorgendo il fagotto sotto l'ascella dell'Avatâr -
mi hai
portato qualcosa da mangiare? Mi daresti ciò che hai sotto il braccio?"
(Swami ride). "Ma ti pare che, nel bel mezzo d'una battaglia, Io mi
prenda
l'incarico di portarti qualcosa da mangiare? (risa nell'assemblea) Ho
seguito Draupadî tenendole le pantofole, per proteggerla". Così
dicendo,
svolse il lembo della veste, da cui caddero due pantofole. Bhîshma
scoppiò
in lacrime: "Swami, davvero Tu ti sottometti al devoto? Sei disposto
perfino
a portare le pantofole di chiunque, per dare protezione, come hai fatto
con
Draupadî?"

Rapporti fra Dio e il devoto

Iddio, pur di garantire protezione al devoto, si abbassa anche a fare
qualcosa d'ignobile, giacché per Lui non c'è assolutamente differenza
tra
basso e alto; perciò, è disposto in qualsiasi momento a fare tutto
quanto è
necessario fare. Il Suo principale obiettivo è proteggere. Fu così che
protesse i Pândava, dalla loro tenera età fino a che furono cresciuti e
fatti adulti; e i Pândava, d'altra parte, ebbero una grande adorazione
per
Krishna, tanto che per loro non era mai tempo di smettere di recitarne
il
Nome.

"Sempre, in ogni momento, in ogni circostanza, in tutti i modi, con
tutti i
mezzi, dovunque, in ogni luogo il ricordo di Krishna", si legge nelle
Scritture. E Krishna, in ogni momento e in ogni luogo, ebbe sempre nei
Suoi
pensieri i Pândava, come un suono registrato, un'eco. Perciò, quando il
cuore del devoto è in angoscia, anche il cuore di Dio è in angoscia:
Dio si
manifesta sotto forma di reazione, riflesso, risonanza. Nessuno può
capirLo.
Vi diranno: "Tutto qui? Per una cosa così piccola s'è scomodato?"

Per il Signore non ci sono piccole o grandi cose; Egli sarà disposto a
compiere ogni genere di azione per proteggere un Suo devoto. Che senso
avrebbe parlare di Dio, se mancassero i devoti? Quindi, è la presenza
dei
devoti che descrive la magnificenza di Dio; sono loro che ne parlano.

Per avere l'amore di Sai

Guardate quanta gente c'è qui radunata. Perché siete venuti? C'è una
sola
risposta che potete dare: qui c'è qualcosa che voi non avete né in voi,
né a
casa vostra, né al vostro paese, né alla porta accanto. Siete venuti
per
avere quel qualcosa, e siete venuti senza essere stati invitati.

Ciò che andate cercando e che non trovate in voi è l'amore di Sai; ciò
che
non trovate a casa vostra è l'amore di Sai; ciò che non riuscite ad
avere al
vostro villaggio è l'amore di Sai! E quest'amore è veramente qui: voi
siete
venuti qui proprio per questo, per ottenere ciò che non avete.
Prendetelo,
fatelo vostro e tornate a casa vostra. Riempitevi il cuore di questo
amore!

Dov'è Baba senza devoti? (applausi) Dove sono i devoti senza Baba? Il
rapporto che intercorre fra i devoti e Baba è d'intimità: i due sono
inseparabili e interdipendenti. I devoti sono il Mio respiro vitale, il
Mio
Prâna, e Baba è il Prâna dei devoti: in entrambi non esiste che un
unico
respiro vitale, una sola vita. Perciò, comprendete chi è Baba e, in
qualunque luogo vi troviate, Egli vi proteggerà (applausi).

Chi è veramente devoto del Signore può trovarsi in qualsiasi luogo o in
qualsiasi situazione e non avrà a mai a patire dolori, afflizioni o
angosce.
Tutta la storia lo testimonia: mai nulla di male accade all'uomo pio;
il
devoto non ha mai problemi. Una tale protezione è ben meritata da chi
ha un
cuore puro; ma se questa fede vacilla od oscilla come un pendolo, non
la si
otterrà.

Bisogna avere una fede stabile, integra, disinteressata. Il vostro
cuore
dev'essere come un faraglione piantato in mezzo al mare; le onde vanno
ad
infrangersi contro, e la roccia, che non verrà mai da esse abbandonata,
rimane immobile. Il vostro cuore sia come quella roccia: le sofferenze
verranno ritmicamente a urtarlo, ma esso deve rimanere "tetragono ai
colpi
di ventura". Questa è vera devozione.
"Davvero divino è colui che possiede un intelletto incondizionato,
sacro,
eterno, immacolato, sempre puro, incorruttibile, dolce come il nettare,
tenero, sommamente fausto".

Incarnazioni del Divino Amore, potrete rinunciare a tutto, ma non
potrete
mai fare a meno di Dio. Non dimenticateLo mai e conservate questa
verità
come un tesoro geloso nel vostro cuore. Questo Tesoro vi darà tutta la
protezione di cui avete bisogno, senza esclusione di colpi.


(Swami chiude il discorso intonando "Subrahmanyam Subrahmanyam")


Brindâvan, Sai Ramesh Hall, 19 Maggio 2000.
Corso Estivo 2000
Versione integrale.