DISCORSO DIVINO

Dio non fa preferenze di persone

18 giugno 1989

Non potete sperimentare
l'Essere-Coscienza-Beatitudine
con mere parole vuote di significato.
Non mieterete proprio nulla
se non avete posto il seme nel terreno.
Aprite gli occhi e guardate
il Beatissimo Signore Sai.
Si dice che ieri fosse a Shirdi
ed oggi a Parti;
in verità, Egli è sempre presente
nella visione di chi nutre
sentimenti sinceri.
Chi è sensibile ed è in sintonia con Lui,
Lo può sempre vedere
con i suoi stessi occhi.
Aprite gli occhi
e guardate questa Verità.
* * *

Cari studenti,

Imparzialità di Dio
[1] l'Amore di Dio è uguale per tutti. Un fiore ha la medesima fragranza sia nella mano destra che nella mano sinistra. Davanti a Dio non ci sono simpatici ed antipatici. La visione degli uomini è racchiusa entro i limiti della loro natura e non va oltre la prospettiva del loro operato. In confini così ristretti, essi cercano di notare differenze e preferenze in Dio. Ma l'uomo le cui conoscenze non esulano dal mondo non potrà mai comprendere la Forza e la Gloria divine.

Competenza nelle cose di Dio
[2] Come può un commerciante di pesce conoscere e trattare il valore di diamanti e pietre preziose? Tutto quanto vedete non è che una vostra sensazione. Le vostre sensazioni si concretizzano nelle forme e nelle immagini che vedete. L'illusione a cui andate soggetti proviene dalla fragilità dei vostri sentimenti. Una scure abbatte un albero di sandalo senza sentimenti di misericordia o di compassione. Prendete esempio da quell'albero che spande la propria fragranza anche all'ascia che lo sta tagliando, senza curarsi dello sbaglio e senza muovere critiche. Il Divino è esattamente come quell'albero.

Mormorazioni contro Dio
[3] Vi sono alcuni che mormorano contro Dio per ignoranza, orgoglio, egoismo e disinteresse. Forse costoro credono di offendere Dio col loro sparlare, ma Dio non rimane ferito da simili parole, anzi offre la Sua benedizione anche a questa gente indegna.

Critiche a Rama
[4] Bene e male sono il diritto e il rovescio di ogni cosa. Gli abitanti di Ayodya avevano una gran devozione e un gran rispetto nei confronti del Signore Ramachandra. Tuttavia, nonostante le loro insistenze nel pregarLo di rimanere in città, Rama decise di recarsi nella foresta. Le stesse persone, che prima erano così amorevoli, rispettose e piene di riguardi per Rama, non avendo ottenuto quanto desideravano, incominciarono a rivolgerGlisi con parole aspre e con del risentimento. "Eravamo abituati a pensare che il cuore di Rama fosse dolce come il nettare. Credevamo che il Suo cuore fosse tenero come il burro. Non avremmo mai immaginato che sarebbe stato così crudele...".

Il dualismo nel mondo
[5] La critica è l'opposto della lode. Ogni cosa del mondo fenomenico oscilla nel dualismo tra il bene e il male, tra la lode e la critica, e così via in simili coppie di opposti. Associazione e dissociazione sono entrambe causa di sofferenza per il devoto. Rattrista separarsi dai buoni, intristisce stare con i cattivi. Sia teisti che atei, sia la gente buona che la gente cattiva sono di intralcio alla Divinità. Una delle discipline più importanti per l'uomo consiste nel frequentare persone buone ed evitare la compagnia di chi cova malanimo.

Il frutto dell'azione
[6] È sempre lo stesso cuore che produce piacere e dispiacere, amicizia e inimicizia. Dallo stesso oceano nascono sia il nettare che il veleno: il nettare dà gioia, il veleno fa male; il nettare è gradito, il veleno è ripugnante. Vi sono buone qualità che onorano l'uomo: coltivatele. Il problema dell'uomo d'oggi è che aspira a godere i frutti delle proprie buone azioni, senza però impegnarsi nel compierle. Vorrebbe evitare le conseguenze di azioni peccaminose, ma intanto vi si intrattiene. Ecco la causa di tutti i dolori. Se non volete i frutti delle azioni cattive, non fatele e se desiderate i frutti di azioni meritorie, dovete prima compierle.

Il dualismo nell'uomo
[7] Nella maggior parte degli esseri umani si trova una mescolanza di bene e di male. I corvi prediligono cibi amari, mentre i cuculi amano le tenere foglie del mango. Allo stesso modo si comportano certe persone a cui piace godere le cose del mondo, e così esauriscono, sprecano e tormentano tutti i momenti della loro vita. I buoni invece aspirano intensamente ad ottenere la Grazia di Dio. In entrambi i casi c'è una commistione di bene e di male.

Il prezzo del bene
[8] I buoni hanno sempre problemi e difficoltà da affrontare. Dal punto di vista materiale, chi è buono ha molto di che soffrire. È l'albero dei desideri che dispensa ogni genere di frutto. Come pure l'oceano, che elargisce diamanti, è anche pieno di fango. Ma il bene e il male non fanno parte dell'essenza di ogni cosa. Se l'uomo vuole godere la vita, deve riempirsi il cuore di buoni sentimenti: sono essi che lo renderanno felice e allegro. L'uomo deve accrescere in sé l'amore. Solo il donare e il perdonare consentiranno all'uomo di vivere una vita basata sull'amore, mentre l'egoismo cresce sul prendere e il disapprendere: la gratitudine cade nell'oblio e l'egoismo aumenta. Se volete sviluppare doti umane, dovete far posto alla pazienza e alla generosità.

Valore della vita
[9] Cari studenti, in questa vostra tenera età non potete immaginare quanto sia preziosa, sacra e divina la vita: è tutta da vivere. Le simpatie e le antipatie nascono in colui che è egoista e di mente ristretta. C'è un numero infinito di cose che dovete imparare nella vita. Fate tesoro di ogni minuto della vostra giornata, affinché possiate apprendere nuove lezioni di verità fino a sperimentarla in tutta la sua pienezza. Non lasciate entrare nel vostro cuore il sudiciume, tenete lontano ogni sentimento cattivo. Solo un cuore puro può raggiungere stadi elevati.

L'OM dell'Oceano
[10] Il Signore Dakshinamurti tramandò il Suo messaggio per mezzo del silenzio, raramente con le parole. Con un semplice sguardo sapeva trasmettere sentimenti di universalità, divinità, spiritualità. Una volta, nel corso di un Suo viaggio, si recò sulla riva dell'oceano. Era estasiato all'udire il suono dell'Omkara prodotto dalle onde. L'oceano riproduce il suono primordiale divino e simboleggia la grandezza e la maestà di Dio.

Purandara così cantava: "È il loto che dà bellezza allo stagno. Sono le case che fanno esser bello un villaggio. È la Luna che conferisce una luminosa bellezza al cielo. Sono le onde che danno bellezza all'oceano. Sono le virtù che rendono un uomo bello e attraente. È la Vibhuti che dona bellezza e splendore ai devoti".

Così Dakshinamurti considerò le onde come motivo di bellezza per l'oceano. È infatti l'oceano che ci dà un'idea della bellezza, della nobiltà, della grandezza e dell'immensità di Dio.

La lezione dell'Oceano
[11] Il mondo e la vita terrena si possono paragonare all'oceano. Proprio come le onde si susseguono l'una all'altra, così le difficoltà ed i problemi sopraggiungono incessantemente nella vita materiale. Queste difficoltà, però, hanno delle lezioni che non devono sfuggire e Dakshinamurti si servì dell'oceano come esempio, per apprendere questo tipo di lezione. Egli osservò che, ogniqualvolta il vento trascinava materiali di rifiuto in acqua, l'oceano metteva in azione le onde, che col loro susseguirsi provvedevano a ripulire la superficie dell'acqua. Allora Dakshinamurti entrò in conflitto per il comportamento dell'oceano e gli chiese: "Quanto sei egoista, oceano! Sei sconfinato e insondabile, eppure non sopporti nemmeno questa poca roba. Non è troppo egoista da parte di un essere vasto come te non saper tollerare queste povere cose?". E l'oceano diede questa adeguata risposta: "Caro Dakshinamurti, non è come pensi. Se io permettessi anche ad una piccola quantità di sporcizia di posarsi su di me, giorno dopo giorno ne accumulerei tanta da sfigurarmi. Il sudiciume potrebbe cambiare il mio aspetto e la mia natura. Posso conservare la mia purezza ed essere lo scrigno di tutti i diamanti solo quando ho gettato via i rifiuti fin dal principio e ho impedito che se ne formasse un cumulo."

Prontezza nella lotta
[12] Così ognuno di voi allontani sul principio anche il più piccolo pensiero cattivo che si affacciasse alla sua mente. Sottovalutarlo come una cosa piccola ed irrilevante gli consentirebbe di far breccia nella mente e, col passar del tempo, di riempirla completamente. Così, durante quel processo, la stessa natura umana subirebbe un totale deterioramento. Ne verrebbe compromessa l'essenza umana. Fate dunque ogni sforzo per allontanare ogni cattivo pensiero nell'istante stesso in cui insorge e fate largo il più possibile alle qualità umane.

Fiducia in sé
[13] Le grandi cose si possono a volte ottenere anche con mezzi limitati. Sono le piccole formiche che, unite tra loro, possono uccidere un grosso serpente. Ma voi non fatevi condizionare dall'idea di essere dei piccoli esseri umani. Cercate di reperire le forze e la determinazione per essere in grado di svolgere perfettamente ogni vostro dovere. Chi è buono avrà sempre un sacco di problemi e di difficoltà. Il corvo è geloso del canto del cuculo. Le gru sono gelose della bellezza del cigno. N‚ il cigno, n‚ il cuculo, però, si danno pena. Il mondo è pieno di invidiosi. Non lasciatevi soggiogare da sentimenti del genere. Affrontateli e vinceteli. Uscite vittoriosi da questa sfida.

Pace e prosperità
[14] Aspirate alla pace e alla prosperità. Come attingere a questa pace, prosperità e felicità? Soltanto col controllo della mente. E che fare per controllare la mente? Rimanete a stretto contatto con Dio. Chi invoca pace e felicità troverà una stupenda risposta nella Bhagavad Gita: "O pazzo, che aneli alla pace e alla prosperità. Vuoi vittoria e successo, ma che stai facendo per averli?".

Dove c'è il Divino Signore Krishna,
dove c'è Parta, il figlio della Terra,
là c'è l'uomo.
Laddove l'uomo si trova accanto a Dio
e Dio sta a fianco dell'uomo,
avrete ogni successo,
la vittoria sarà assicurata.
Preghiera sull'Onnipresenza di Dio
[15] Se volete tanto avere successo, pace, prosperità e ricchezza, fissate saldamente Dio nel vostro cuore. Voi continuate a domandarvi "Dov'è Dio? Dov'è?". Dio è in ogni luogo. Avrete questa risposta nella preghiera quotidiana prima di pasti, o almeno l'avranno coloro fra gli studenti che usano questa preghiera:

Brahmarpanam Brahma havir
Brahmagnau Brahmana hutam
Brahmaiva tena gantavyam
Brahma-karma-samadhina. (Bhagavad Gita IV,25)
[L'oblazione è Dio;

il burro raffinato è Dio;

il fuoco che consuma è Dio;

l'offerta viene versata da Dio nel fuoco di Dio;

l'offerente è Dio;

chi è pienamente assorto nella coscienza di Dio

raggiunge il Regno di Dio.]

Chi prega in questa forma continua a ripetere a se stesso che sta offrendo il cibo alla Divinità che in lui dimora. Poi c'è una seconda parte di questa preghiera, nella quale Dio risponde in prima persona:

Aham vaishvanaro bhutva
praninam deham ashritah
pranapana-samayuktah
pachamy annam chatur-vidham. (id. XV,14)
[In ogni corpo animato

sono il fuoco della digestione,

e anche l'aria vitale,

ispirata ed espirata.

Assimilo così i quattro tipi di alimenti.]

"Nella forma di Vishvanara, Io sono presente nello stomaco di tutte le anime incarnate". Se dunque vi chiedete dove sia Dio, la risposta vi giunge dal vostro Sé interiore: Egli risiede in voi nella forma di Vishvanara. Ma voi non vi preoccupate tanto di prestare attenzione a questa risposta!

L'Onnipotente
[16] Se l'apparato digerente non funziona correttamente, cosa ne sarà del cibo che avete ingerito? Chi vi ha fornito quest'apparato? In forza di chi giunge la morte o la vita? Nella sua stoltezza, l'uomo non è stato in grado di riconoscere quella Divinità. Sapete creare voi? Può darsi che sappiate distruggere, ma sareste capaci di ridare la vita ad un morto? Tutto accade per volere di Dio, ma l'uomo non ha fede in questa volontà divina. Senza questa fede, non avrà mai una vita felice e pacifica. Sviluppate una solida fede in Dio.

L'Imparziale
[17] Dio non ha niente a che fare con l'odio o con le preferenze, non va soggetto a simpatie o antipatie. Dio risponderà in maniera esattamente proporzionale ai vostri sentimenti. Un pezzo di ferro non possiede la proprietà di muoversi qua e là, ma può spostarsi se gli accostate una calamita. Il ferro dunque deriva la sua capacità di muoversi dalla calamita.

La conseguenza delle azioni
[18] Bisogna saper vedere il duplice principio di bene e male che regola l'umanità. L'uomo non si accontenta semplicemente di avere tutto quanto di buono gli offre Dio, ma anche si autopunisce.

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La scure, come si è detto, colpisce e recide l'albero di sandalo e quella pianta investe l'ascia del proprio profumo, senza odiarla, senza imprecare contro di essa. Ma la scure, per quella azione, dovrà soffrire. Che cosa dovrà patire? Dovrà superare la prova del fuoco ed essere forgiata a colpi di maglio e quando perde il filo verrà nuovamente messa sul fuoco e ribattuta senza pietà.

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Viene forse da Dio quella punizione? Dio non manda mai il male. Sono le azioni di ciascuno che provocano effetti buoni o nocivi, proprio come accade per la scure. Non è Dio che fa scontare castighi: Egli non punisce affatto. Piuttosto ciascuno si punisce da sé.

Il valore della catarsi
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[19] L'orafo pone nel crogiuolo anche i gioielli più pregiati, senza curarsi della loro espiazione. Ciò nonostante, però, l'oro ha motivo di rallegrarsi. Perché? Perché l'oro pensa: "Quanto maggiore sarà la mia catarsi nel processo di purificazione, tanto maggiore sarà il valore che acquisterò". E così è riconoscente all'orafo: "Grazie alle punizioni che mi hai inflitto, io divento sempre più puro e pregiato. Per contro, i tuoi occhi lacrimano a causa del fumo e i tuoi abiti si stanno sporcando per la polvere e la fuliggine".

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Il Testimone
[20] Non pensate che sia Dio a procurarvi il bene o il male. Dio è soltanto Testimone. Con un semplice movimento dell'interruttore potete accendere una luce o un ventilatore. Con l'interruttore acceso, dunque, avrete il chiaro o il fresco. Ma se spegnete l'interruttore, starete al buio e nell'afa. In qualunque modo giriate l'interruttore, la lampadina e il ventilatore non ci rimettono niente. Il piacere o il disagio sono vostri.

Perdita di energia
[21] Fate in modo di capire quale sia il sistema migliore per servirvi delle cose. In tutto, l'unico supporto è la Divinità. Voi avete fede soltanto in questo fragile corpo e non in Dio che ne è il sostegno ed a causa di questa infatuazione avrete a patire delusioni e ansie. Le ansie, poi, vi priveranno di ogni capacità ed energia. Soddisfatto nei sensi, l'uomo dice tra sé: "Sono felice"; ma è un grosso equivoco. Non siete voi che godete gli oggetti, ma sono gli oggetti che stanno godendo voi. Infatti, l'energia dei vostri organi di senso va sempre più calando, perché gli oggetti l'assorbono totalmente. Invece, quando siete felici, siete anche più forti. Quando siete oggetto di godimento, vi sentite logori, esausti, ed è per questo che è stato detto "Fate attenzione! Dalla nascita alla morte ci saranno solo difficoltà e dolori."

Le gioie del mondo
[22] Cari studenti, le gioie del mondo non durano e non dànno un piacere reale. Potrete desiderarle ed anche fruirne, ma abbiate sempre fissa nella vostra mente la mèta spirituale. Vivete dunque nel mondo secondo una visione divina. Soltanto così avrete successo in ogni campo.

Esperienze spirituali
[23] Condividete con altri le vostre esperienze spirituali e questo sarà loro di aiuto. Si potrà incominciare dalla lettura di qualche buon libro. Due studenti scelti fra di voi, potrebbero comunicare ai compagni le proprie esperienze spirituali e parlare dei propri doveri verso Dio. Intendo dare il via oggi a questo tipo di conversazioni, nella speranza di caricarvi d'entusiasmo e di ispirarvi il meglio da farsi. Non sprecate la vita in cose mondane. Voi trascorrete 23 ore al giorno badando alle cose materiali della vita; passatene almeno una in attività spirituali, dedicandovi alla vita interiore. Incominciate da domani mattina: dalle 5 alle 6 pensate a santificare la vostra vita.

La gemma del Nome
[24] Sainat, che ha parlato prima, ha detto: "Occorre rendersi conto che recitare e meditare il Nome darà i suoi buoni frutti". E Tukaram ha detto: "I frutti saranno noti soltanto a coloro che sanno riconoscere il valore della gemma rappresentata dal Nome". Chi non conosce il valore di quella gemma, la riduce ad una mera parola. Cari studenti, questo periodo della vostra vita è assai prezioso. È indispensabile che ripetiate il Nome di Dio. Sarebbe un grave errore se prendeste queste cose alla leggera. Al mondo non c'è nulla che vi sia precluso, se recitate il Nome. Potete perfino ottenere l'immagine stessa di Dio!

Il Nome che dà ogni ricchezza
[25] Se volete comprare qualcosa, cosa vi serve? Col denaro potete comprare qualunque cosa. Ma allora, che cosa è più importante, il denaro o l'oggetto acquistato? Il denaro, naturalmente, perché con i soldi potete acquistare qualsiasi cosa. Ecco perché, se volete acquistare ogni gioia, felicità e prosperità, dovreste accumulare questa particolare ricchezza che è il Nome del Signore; una ricchezza che vi servirà anche a migliorare le vostre buone qualità.

L'albero della vita
[26] La vostra è un'età in cui si deve aver cura in modo particolare dello sviluppo del carattere. Vi porto un piccolo esempio.

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La vita si può paragonare ad un albero. I parenti e gli amici sono i rami e i virgulti. I fiori dell'albero sono tutti i vostri pensieri. Col frutto della Beatitudine avete il succo del carattere. Ma qual è il fondamento dell'albero? Le radici. Perché possa essere chiamato albero, ci devono essere dunque radici e frutti, altrimenti è solo legna da ardere. Su quest'albero si vanno ad appollaiare gli uccelli della lussuria, del desiderio, dell'odio, e così via. Quando questi uccelli si danno convegno, scompare la pace della mente e ai piedi dell'albero si vanno a depositare un mucchio di escrementi.

Che fare per allontanare questi uccelli? Basta battere le mani e produrre qualche suono e gli uccelli scapperanno. Allo stesso modo, se cantate di cuore i nomi di Rama, Krishna, Govinda, voleranno via tutte le vostre cattive tendenze.

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Mente, parola, corpo
[27] Questo rimedio otterrà la purificazione di tutte le vostre tre dimensioni: mente, parola e corpo. Nel linguaggio vedantico si chiamano karana o organi. Prima il nome di Rama o di Krishna compare nella mente, poi si esprime con la parola ed infine col battere il ritmo: gli strumenti o karana sono coinvolti tutti e tre. Non pochi studenti credono di poter cantare mentalmente, ma questa è pura e semplice ignoranza. Vi sentite sazi al solo pensiero che il cibo è pronto in sala da pranzo? Dovrà arrivare nel vostro piatto e voi dovrete mangiarlo, non vi pare? A che serve se rimane nella vostra mente? I pensieri sorgono nella mente per trasformarsi in parole, poi le parole passano per le orecchie ed infine giungono al cuore. Quello è il cibo che dovete condividere. Cari studenti, chi esce di strada potrebbe crearsi dei problemi di natura fisica, ma chi si allontana moralmente dalla retta via perde il suo stesso senso umano. Non imbattetevi mai in una disgrazia del genere.

Cantare con decisione
[28] Alcuni, quando cantano, muovono appena le labbra, senza far uscire chiaramente la voce, e questo non va bene. Se qualcuno cade in un pozzo profondo non sussurrerà a se stesso "Sono caduto", ma griderà ai quattro venti, affinché qualcuno lo soccorra. Ecco perché dovreste cantare a voce spiegata e con sentimento, per uscire dal gorgo profondo in cui siete precipitati. Perché si fa uso della parola? Per dire cose inutili? Le parole debbono essere sempre sotto controllo e debbono essere impiegate per cantare la Gloria del Signore, il Suo Nome, con tutta la forza della voce, liberamente e senza inibizioni. Non frenatevi, non contenetevi. I canti del nostro Kumar non sono molto espressivi. Cantate con una pronuncia ben comprensibile, a gola spiegata e dal profondo del cuore il Nome del Signore.

Cantare per dar gioia
[29] Dovreste tener presente anche un'altra cosa. Qualunque canto devozionale eseguiate, non siete i soli a sentirlo. Dovreste fare in modo che le migliaia di persone che vi ascoltano siano felici e contente. Dovete essere contenti voi e i mille che vi stanno ad ascoltare. Fate caso ai lampioni stradali: servono a far luce sia alla strada sia alle persone che la percorrono. Così pure i canti sacri devono infondere gioia a voi e a tutti i presenti. Chi dirige il canto deve saper cantare molto bene. A questo scopo si dovrà esercitare a lungo. Non dimentichi che ci sono migliaia di persone che lo stanno ascoltando.

Giusta intonazione
[30] Il canto dev'essere intonato nella giusta tonalità. A questo proposito, si è dato un nome alla nostra nazione. Come si chiama il nostro Paese? Bharatha. In questo nome ci sono tre sillabe: Bha-Ra-Tha. "Bha" si riferisce al sentimento, "Ra" alla tonalità e "Tha" al tempo. Sono tre caratteristiche che devono completarsi nel canto. Allora sarete davvero degni di questo nome.

Cantare insieme
[31] Cantate con voce sonora, mettendoci cuore ed entusiasmo. C'è un'energia straordinaria nel cantare insieme. Fu il Guru Nanak che diede inizio allo stile del canto comunitario. Non eseguite dei canti individuali per voi stessi, ma unite insieme tutte le vostre voci. Ritmo e battito delle mani siano una cosa sola, come i vostri cuori. Pensate quale melodia ne uscirebbe, se tutti cantassero davvero nella stessa tonalità e con il medesimo ritmo!

Il sottile inquinamento
[32] La ripetizione del Nome ed il canto sacro hanno lo scopo di infondere gioia. Ciascun studente dovrebbe sforzarsi di raggiungere il Divino col canto. Si diventa ciò che si pensa. Perciò, con anima e cuore, recitate il Nome del Signore. Nel mondo d'oggi si sono infiltrati idee e pensieri cattivi, perché gli ambienti in cui si vive non sono sacri. Cari studenti, cercate di capire una verità importante: voi respirate l'aria che si trova dappertutto. Da dove proviene quell'aria? Di che cosa è fatta? Quell'aria è inquinata da parole cattive e, respirandola, vi assaliranno pensieri cattivi. La qualità del fumo dipende dal fuoco. La qualità delle nubi dipende dal fumo. La pioggia dipende dal tipo di nubi. La messe dipende dalla pioggia. Il cibo che preparate dipende dalla qualità della messe. Il vostro cervello dipende dal cibo che ingerite. Perché perdete la testa? I vostri pensieri sono intaccati da tutte le vibrazioni sonore prodotte dalle varie stazioni radio di Delhi e Bombay. Queste onde magnetiche raggiungono qualunque posto e vengono sorbite.

Potere catartico del Nome
[33] La ripetizione del Nome è in grado di purificare quest'aria contagiosa. Senza di Esso, i cattivi pensieri vi ucciderebbero. I suoni senza significato che sono messi in onda dalle radio producono in voi pensieri vuoti di significato. Ma se cantate i nomi di Rama e di Krishna avrete dei pensieri buoni, santi, divini. Cari studenti, cercate di vedere l'unica Divinità che è in tutto. Qualsiasi desiderio o progetto di Swami è sempre carico di significati: in questo momento della vostra vita non potete capirlo, ma col tempo vi sarà sempre più chiaro e ne gioirete. Non perdete di vista il Nome di Dio. Sviluppate una fede incrollabile. Tutte le atrocità che avvengono nel mondo sono causate dalla mancanza di fede in Dio. Il mondo è pieno di scuole e di laureati, ma manca in essi la purezza di cuore e il controllo dei sensi.

Sapienza ed ignoranza
[34] L'altro giorno vi dissi che Ravana possedeva 64 scienze, mentre Rama soltanto 34. Dal punto di vista culturale Ravana superava Rama, ma qual è la differenza fra i due? Rama fu un vero sapiente, Ravana invece un ignorante. Che differenza c'è fra conoscenza ed ignoranza? Rama aveva il completo dominio dei sensi, Ravana invece ne era schiavo. Per questo Valmiki diede dello stolto a Ravana, perché era sì molto colto, ma schiavo dei sensi.

Controllo dei sensi
[35] Cercate di dominare i sensi, altrimenti i sensi stessi vi distruggeranno. Sono i sensi che stanno portando l'umanità alla completa rovina e che vi gettano nel discredito. Basate la vostra vita sulla ripetizione del Nome del Signore. Se volete attraversare incolumi l'oceano della vita, questo è il modo migliore.





(Prashanti Nilayam, 18 Giugno 1989
agli studenti universitari riuniti nel Tempio)


Scheda di studio N° 9


Dio non è così


La Scrittura parla di un Dio che vive "lassù in alto", nel cielo. Ed effettivamente l'immagine biblica di un universo a tre piani, "il cielo sopra, la terra sotto e le acque sotto la terra", veniva intesa, in genere, nel suo valore letterale. Ma già i più colti e smaliziati tra gli autori biblici non avrebbero esitato, se ne avessero sentito il bisogno, a riconoscere che questo è soltanto un linguaggio simbolico, uno strumento per la rappresentazione delle realtà spirituali. Evidentemente, però, una simile questione non venne loro posta, o almeno non venne da loro presa in considerazione. Perfino un uomo colto anche nelle scienze profane, come S. Luca, poté esprimere la sua credenza nell'ascensione di Cristo - la convinzione cioè che egli non soltanto vive, ma regna nella potenza e nella giustizia di Dio - dicendo, in senso crudamente letterale, che egli è stato "elevato" in cielo, e che lassù siede alla destra dell'Altissimo (cfr. Atti 1, 9-11). E non sente affatto il bisogno di giustificarsi per questo suo linguaggio, proprio lui che, fra tutti gli autori del Nuovo Testamento, si proponeva di presentare il cristianesimo a quelli tra i pagani che Schleiermacher definì i suoi "colti spregiatori". Cosa tanto più notevole se si pensa, d'altro lato, che egli vuol far capire ben chiaramente ai suoi lettori che il cristianesimo ha definitivamente superato l'idea che della divinità avevano gli Ateniesi (cfr. Atti 17, 22-31), quella cioè di un Dio che vive nei templi costruiti dall'uomo ed ha bisogno di essere servito dalle mani dell'uomo, idea che, ai nostri occhi, non è poi molto più primitiva.

Anche i due più maturi teologi del Nuovo Testamento, inoltre, S. Giovanni e S. Paolo, parlano con la massima disinvoltura, nei loro scritti, di questo "salire" e "discendere":

"Nessuno è asceso al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo". (Gv 3, 13)

"Ciò vi scandalizza? Che avverrà dunque, se vedrete il Figlio dell'uomo ascendere dov'era prima?". (Gv 6, 61s)

"Ma, 'ascese ' che cosa vuol dire se non che egli è anche disceso nelle regioni inferiori della terra? Colui che è disceso, è quel medesimo che è anche asceso sopra a tutti i cieli, per riempire il tutto". (Ef 4, 9s)

Essi potevano usare liberamente un simile linguaggio per la ragione che non vi avvertivano ancora alcun motivo di imbarazzo. Chiunque era in grado di capirne il significato, in modo più o meno grossolano. Per S. Paolo, senza dubbio, l'espressione "rapito fino al terzo cielo" (2Cor 12, 2) era una metafora come lo è per noi (benché molto più precisa, per lui). Eppure egli poteva usarla, rivolgendosi ai Corinti, colti e raffinati, senza avvertire alcun bisogno di toglierle la sua veste mitologica, per renderla accettabile.

Per gli autori del Nuovo Testamento l'idea di un Dio "nell'alto dei cieli" era dunque ovvia, non era ancora avvertita come una difficoltà. Anche per noi è un'idea ormai quasi ovvia, ma per il motivo opposto: essa ha cessato praticamente di essere una difficoltà. Non ci rendiamo quasi più conto nemmeno del fatto che per indicare una differenza di valore ricorriamo spesso al concetto di altezza (più alto-meno alto). (...) Possiamo certo sentire la necessità di spiegare ai nostri bambini che il paradiso non è, in realtà, sopra le loro teste e che Dio non è "oltre lo splendente cielo azzurro". E può anche darsi che molti di noi, pur essendone convinti con la ragione, nel profondo dell'animo conservino ancora l'immagine di un "vecchio maestoso che vive nel cielo". Ciò non toglie tuttavia che per la maggior parte di noi, in genere, l'immagine tradizionale di un universo a tre piani, quale la si ritrova nelle forme stesse del linguaggio, non rappresenti più un vero impaccio. Non ci preoccupa intellettualmente, non è un'offesa alla fede, per il fatto che già da tempo è avvenuto in noi un mutamento di prospettive di cui siamo appena consapevoli. In effetti noi non ci rendiamo più conto di quanta parte della terminologia biblica sia legata ad immagini spaziali, per il semplice fatto che non la intendiamo più in quel modo. È come se, leggendo uno spartito musicale, noi non vedessimo in realtà le note così come sono stampate, ma le trasportassimo mentalmente in un'altra chiave. Così nello spartito della Bibbia ci sono ancora delle note, per così dire, che ci suonano all'orecchio nel vecchio modo e che non ci riesce di trasportare immediatamente nel nostro linguaggio moderno (L'Ascensione, per esempio); in generale però quasi tutto il linguaggio biblico è per noi facilmente assimilabile.

In luogo di un Dio che sta "lassù in alto", nel senso letterale o fisico della parola, noi abbiamo assunto, come parte del nostro contenuto mentale, l'idea di un Dio spiritualmente o metafisicamente "al di fuori".

Anche qui c'è naturalmente chi intende questo "al di fuori" nel senso letterale. Si tratta di chi, pur avendo accettato la rivoluzione copernicana della scienza, ha continuato però, praticamente fino ai nostri giorni, a collocare mentalmente Dio "al di là" dello spazio esterno. In effetti il gran numero di persone che istintivamente non ritiene più possibile credere in Dio nell'èra delle ricerche spaziali, ci dà la prova del senso grossolanamente fisico in cui è stato inteso questo concetto di un Dio "al di fuori". Prima che con i moderni mezzi della tecnica, come i radio-telescopi o addirittura i missili, fin gli ultimi recessi del cosmo divenissero praticamente accessibili, era ancora possibile collocare mentalmente Dio in qualche "terra incognita". Ora però sembra che non ci sia più posto per lui, non soltanto nelle locande di Betlemme, ma in tutto l'universo: non c'è più nessuno spazio vuoto. In realtà questa nuova conoscenza dell'universo non ha portato niente di nuovo. Il limite posto allo "spazio" dalla velocità della luce (superato un certo punto - non poi tanto lontano dalla nostra attuale portata - tutto scompare dietro l'orizzonte della visibilità) è ancor più rigido. Nulla ci impedisce dunque, volendolo, di collocare Dio "oltre" quel limite. Là egli sarebbe veramente invulnerabile, in una "lacuna" che la scienza non potrebbe mai colmare. Ma proprio l'avvento dell'era spaziale ha distrutto questa rozza immagine di Dio; dobbiamo quindi esserle grati. Se infatti Dio è "al di là", non è però "al di là", in senso letterale, di nessuna cosa.

Molto più dura a morire è invece l'idea di un Dio spiritualmente o metafisicamente "al di fuori". Moltissimi infatti sarebbero seriamente turbati dal pensiero che essa debba scomparire del tutto. È il loro Dio, ed essi non hanno nulla da mettere al suo posto. Anzi, sarebbe forse più onesto dire "noi" e "nostro", invece di "loro" ed "essi". È il Dio della nostra educazione, delle nostre conversazioni, il Dio dei nostri padri e della nostra religione, che viene così attaccato. Ciascuno di noi ha una sua immagine particolare di questo Dio che sta "al di fuori", di questo Dio che "esiste" al di sopra e al di là del mondo che ha creato; un Dio al quale rivolgiamo le nostre preghiere e al quale andiamo dopo la morte. Nella tradizionale teologia cristiana la dottrina della Trinità costituisce appunto una conferma di questa esistenza autonoma della Divinità, a noi estranea e da noi separata. La dottrina della creazione inoltre afferma che a un certo momento questa Divinità creò "il mondo", come qualcosa di contrapposto a sé. E nella narrazione biblica noi vediamo come essa si sia posta in contatto con le sue creature, come abbia stabilito un "patto" con esse ed abbia mandato loro i suoi profeti, e come al compiersi del tempo le abbia "visitate" nella persona del Figlio, che deve "ritornare" un giorno a raccogliere quelli che hanno creduto in lui.

Questa immagine di un Dio "fuori" del mondo, che viene sulla terra, come visitatore, dallo spazio esterno, sta alla base di tutte le rappresentazioni popolari del dramma cristiano della salvezza, sia nella letteratura che nella predicazione. (...)

Anche in passato, a un certo momento l'idea di un universo a tre piani cominciò ad apparire assurda perfino come semplice metafora. Ma non fu un processo immediato: in un prino tempo non la si intese più nel suo valore letterale, di spiegazione dell'universo, e solo molto più tardi cessò di essere usata anche come metafora. Ne abbiamo una prova nel modo di concepire l'inferno: secondo il vecchio schema esso era "al di sotto"; ma già all'epoca di Shakespeare nessuno lo pensava più come letteralmente sotto terra. Eppure ancora nell'Amleto questa immagine sopravvive come una metafora abbastanza viva e credibile. A poco a poco però l'idea di un inferno "localizzato" è divenuta estranea anche all'immaginazione, e i tentativi di riesumarla, riattizzandone per così dire le fiamme, non hanno avuto successo. Ma ciò che è più grave, e quasi tragico, in questo caso, è che per il diavolo ed i suoi angeli, per l'abisso infernale e per le sue fiamme, non si è trovata un'effettiva traduzione nei nuovi termini della concezione di Dio come "fuori" del mondo. Essi sono andati quindi scomparendo quasi del tutto dal Cristianesimo popolare, a grave detrimento della profondità del Vangelo.

Quello che mi importa sottolineare qui è che il superamento del vecchio schema fu graduale. Anche quando per la scienza era ormai infondato, esso continuò a servire, su piano teologico, come un termine di riferimento accettabile: l'immagine di un Dio "lassù in alto" sopravvisse di molti secoli alla sua validità come rappresentazione specifica della realtà. Oggi invece mi pare che ci si trovi di fronte ad una doppia crisi. Il colpo di grazia che la scienza moderna e la tecnologia hanno inferto, sul piano psicologico, se non su quello logico, all'idea che ci si possa essere letteralmente un Dio "al di fuori", ha coinciso con la scoperta che anche la semplice immagine mentale di un simile Dio è in fondo più un ostacolo che un aiuto a credere nel Vangelo. È una doppia spinta che ci induce ad abbandonare tutta quella vecchia costruzione, e con essa ogni fede in Dio.

Ma non è soltanto una questione di più rapido adattamento. L'abbandono del Dio "esterno" implica una frattura molto più radicale di quella che si ebbe nel passato. Si trattò allora, più che altro, di una questione di definizione verbale, del mutamento di una metafora spaziale; importante, senza dubbio, in quanto liberava il Cristianesimo da una cosmologia fondata sull'immagine della terra come superficie piatta. Ora invece si tratta di rinunciare completamente ad ogni idea di un Essere che sta "al di fuori"; e questo può sembrare una vera e propria negazione di Dio. Secondo il modo di pensare comune, infatti, credere in Dio significa esser convinti dell'esistenza di un Essere supremo, separato dal mondo. "Teisti" sono coloro che vi credono, "atei" quelli che la negano.

E se quell'Essere supremo, "fuori" del mondo, fosse in realtà soltanto una versione più elaborata del vecchio Iddio che vive nel cielo? Se credere in Dio non dovesse significare affatto esser convinti dell'"esistenza" di una qualche entità, sia pure suprema, che però potrebbe esserci o anche non esserci, come la vita su Marte? Se fossero gli atei ad avere ragione - senza però che questo debba significare la fine o la negazione del Cristianesimo, come già non lo fu l'abbandono dell'idea di un Dio "celeste", che pur dovette sembrare, a suo tempo, in contraddizione con tutto ciò che diceva la Bibbia? E se tutto questo ateismo non fosse altro che la distruzione di un idolo, che non impedisce che si possa e si debba andare avanti senza alcun Dio "esterno"? Non sarà il caso di prendere seriamente in considerazione l'eventualità che l'abbandono di un simile idolo possa essere, per il futuro, l'unico modo per dare un senso, al Cristianesimo, valido per tutti, se si eccettuano quei pochi ritardatari che sono simili ai vecchi sostenitori della terra piatta? (Se in passato si fosse rimasti fermi al Dio "celeste", la fede nel Vangelo sarebbe divenuta impossibile praticamente per tutti, tranne che per i popoli primitivi). Può darsi che dopo tutto abbiano ragione i freudiani, che quel Dio - il Dio della teologia popolare tradizionale - non sia che una proiezione di esigenze umane; e che noi si sia chiamati a vivere senza alcuna proiezione del genere.

Non è certo una prospettiva attraente: ci si sente inevitabilmente come degli orfani. Ed è destinata a venir fraintesa e respinta come negazione del Vangelo, tradimento di ciò che dice la Bibbia (benché in realtà la Bibbia nei suoi termini letterali parli di un Dio che noi abbiamo già abbandonato). L'opposizione non sarà soltanto dei fondamentalisti, ma del 90% dei cristiani. E non ne sarà meno urtata la maggioranza di coloro che, pur non essendo praticanti, ed essendo poco abituati a riflettere, finiscono per essere ancor più gelosi delle credenze che hanno respinte. Ma soprattutto è il nostro stesso io che si rifiuta, in gran parte, di accettare questa rivoluzione, e vorrebbe che non fosse necessaria.

Sorge di nuovo, insistente, la domanda: perché tutto questo? È proprio necessario passare attraverso questa nuova rivoluzione copernicana? Dobbiamo proprio distruggere ciò che per la maggior parte della gente costituisce una maniera tanto facile di credere - o di non credere? E abbiamo veramente qualche cosa da sostituirvi?

Sono domande che mi sono fatto molte volte. Ma sono certo, dentro di me, che esse vanno chiarite; anzi, sotto molti aspetti, esse sono già state chiarite. L'unica differenza sta nel fatto che invece di restare semplicemente ai margini del dibattito intellettuale, esse possono essere messe apertamente in primo piano, sotto gli occhi di tutti. So che come vescovo potrei benissimo compiere il mio dovere, in genere, senza essere costretto a discutere simili problemi; anzi, evitando di sollevarli renderei senz'altro più agevole il funzionamento della macchina ecclesiastica che da me dipende. Anche la normale predicazione, propria del mio ministero, non richiede che se ne faccia cenno in modo particolare. E in effetti, tale è il peso delle mie obbligazioni quotidiane, che sicuramente non sarei mai stato in grado, e tanto meno in dovere, di dedicarmi a tali questioni in modo da trarne un libro, se non fossi stato costretto a letto per tre mesi. Ma erano problemi che da lungo tempo mi tormentavano, e fin dal primo momento sentii la necessità di approfittare di quel periodo di degenza per interessarmene.

Basta dire che di anno in anno tutta una serie di cose era venuta, per così dire, suonando il campanello di allarme, senza che ne capissi il perché; aspetti ancora confusi delle più varie letture ed esperienze si erano venuti sommando. È così che, dapprima in modo impreciso, uno finisce poi per convincersi che certe cose sono vere ed importanti. Non si riesce magari ad afferrarle completamente o a capire la ragione della loro importanza; si è tentati fors'anche di respingerle. Ma alla fine ci si rende conto che in un modo o nell'altro è necessario venire a patti con esse: non occuparsene infatti, una volta che se ne sia avvertita l'importanza, significa vedere a poco a poco perder forza molte altre convinzioni. Queste non vengono certo abbandonate, anzi si dichiara esplicitamente che non si è cessato di credervi (ed è vero); ma si sente, in qualche modo, che hanno perso una parte del loro contenuto. E si capisce in fin dei conti che si sta impedendo quella loro revisione che è richiesta dalle nuove istituzioni, soggettive, certo, ma non per questo meno autentiche.

Altre cose poi, come ad esempio certi aspetti del cristianesimo tradizionale - sia sul piano della devozione che su quello della vita pratica - pur non avendo dato nessun segnale d'allarme, e pur continuando ad avere evidentemente un grande significato per la maggior parte delle persone, tuttavia ci cominciano a lasciare indifferenti. Se ne può ovviamente concludere che si tratta soltanto di una propria insufficienza spirituale; ed è vero in gran parte. Ma non ho dimenticato il sollievo con cui, vent'anni fa, al tempo dei miei studi teologici, scoprii, durante una conversazione delle ore piccole, uno spirito affine, per il quale, come per me, l'intero insegnamento sulla preghiera (così come ci veniva impartito) aveva ben poco significato. Non vi era nulla che si potesse dire sbagliato; era anzi una specie di giostra suggestiva: ma noi ne restavamo fuori, e, quel ch'è peggio, non sentivamo nessun particolare desiderio di salirvi. Rendersi conto che, dopotutto, non si è proprio il peggiore dei peccatori, o l'unico che non marcia al passo, significa liberarsi dal peso di una colpa segreta, per quanto fondamentalmente non ammessa. E da allora mi sono imbattuto in molti altri - una minoranza sorprendentemente grande - che riconoscono di essersi trovati nello stesso vicolo cieco. L'insegnamento tradizionale, senza dubbio, è giusto e vero e si deve ammettere che meriterebbe di avere una profonda risonanza; eppure si ha l'impressione, per così dire, che esso si muova non dentro, ma intorno a noi. Se uno poi lo vuol mettere apertamente in discussione vien considerato come un traditore, vien bollato come un individuo assolutamente insensibile ai valori spirituali, che può indurre altri in errore.

Ma questo è soltanto un piccolo esempio. In realtà, man mano che si procede si trova che le cose in cui non si crede e non ci si sente obbligati a credere hanno lo stesso potere di liberazione di quelle in cui si crede. È appunto ciò che ha asserito anche James Pike, Vescovo di California: in un articolo molto stimolante e costruttivo, che scosse la Chiesa Americana e si attirò perfino l'accusa di eresia da parte del clero di una diocesi, egli scrisse:

"Mi trovo a far parte di una tradizione religiosa... che in realtà non ne sa molto, di religione. I Cattolici Romani e i Battisti del Sud ne sanno molto più di noi. E... ho l'impressione che molti all'interno della mia stessa Chiesa - alcuni dei quali sono anche autori di quegli opuscoli che si vendono all'ingresso delle chiese - abbiano troppe risposte già bell'e pronte. Io non dico che le risposte non siano vere, dico soltanto che non ne conosco tante quante gli autori di quei pamphlets."

(...) Non pretendo di aver compreso io stesso tutto quello che mi propongo di spiegare: per questo, almeno in parte, ho preferito lasciar parlare gli altri con le loro stesse parole, mediante ampie citazioni. Anche perché lo considero come un tentativo di comunicazione, di mediazione tra un certo ambiente colto, nel quale ciò che intendo dire è già familiare e tutt'altro che originale, e un altro ambiente, quello popolare, sia all'interno che all'esterno della chiesa, per il quale esso è del tutto nuovo ed ha quasi un sapore di eresia.

A questo punto, per chiarire ancor meglio ciò di cui sto parlando, mi sia lecito citare come esempi tre scritti, tutti brevi, che lasciarono in me una netta impronta già alla prima lettura, e che si sono poi dimostrati fecondi non solo per me, ma anche per molti altri della mia generazione.

Il primo che lessi (non il primo come di stampa) fu un sermone di Paul Tillich, apparso nella raccolta "The Shaking of the Foundations", pubblicata in Inghilterra nel 1949. Era intitolato La profondità dell'esistenza e mi fece capire che gran parte del tradizionale simbolismo religioso veniva ad essere rivoluzionato se alla prospettiva dell'altezza si sostituiva quella della profondità. Dio, diceva Tillich, non è una proiezione fuori dello spazio, un "Altro" esistente al di là del cielo, della cui esistenza ci si debba convincere; è il fondamento del nostro stesso essere.

"Il nome di questa infinita ed inesauribile profondità, fondamento di ogni essere, è Dio. È a questa profondità che si riferisce la parola Dio. E se tale parola non ha più ormai per voi molto significato, traducetela, e parlate della profondità della vostra vita, della sorgente del vostro essere, di ciò che veramente vi importa, di ciò che prendete veramente sul serio, senza riserve. Per farlo, dovrete forse dimenticare qualcuna delle nozioni tradizionali di Dio, dovrete forse dimenticare questa stessa parola. Ma se sapete che Dio significa profondità, sapete già molto di lui. Non potrete allora definirvi atei o non-credenti, perché non potete dire: la vita non ha profondità, la vita è superficiale, l'Essere stesso è soltanto superficie! Solo se vi sentiste in grado di dire tutto questo in piena serietà, sareste atei; altrimenti non lo siete. Chi conosce la profondità, conosce Dio."



(Tratto dal libro di John A.T. Robinson, Dio non è così (Honest to God), Vallecchi 1965, pp. 33-43)