DHYANA

Dentro la tecnica Jyoti

Spiegazione analitica dei preliminari alla Meditazione.

“Mens sana in corpore sano”

Non basta la medicina a curare un ammalato. Per una pronta guarigione ci vuole anche un controllo dietetico. Non esiste una particolare panacea per la grande tribolazione del mondo. Ciascun individuo ha il suo proprio bagaglio di sofferenze. Ciò nondimeno, la meditazione su Dio rappresenta un infallibile rimedio al dolore umano, qualora venga integrato da una vita di rettitudine, nella stretta osservanza dei limiti morali. Siamo tutti interdipendenti. Bisogna imparare a condividere gioie di altra gente. Un meditante deve pregare per il benessere altrui con la medesima sincerità con cui pregherebbe per il proprio.

Un aspirante spirituale non ha bisogno di vivere in isolamento monastico. Egli dovrebbe praticare la compassione per tutti, la quale non fa che tradursi in un intenso desiderio per la prosperità dell’umanità intera. L’alimentazione gioca un ruolo di rilievo nella coltivazione della compassione universale. Vorrei parlarvi del cibo sattvico, ossia del genere di cibo necessario per il progresso spirituale. Il cibo sattvico fa si che il discepolo afferri il concetto di onnipresenza della Divinità. Il suo progresso avviene per il passaggio dei quattro stadi di vita divina:

1) l’iniziazione alla realtà teocentrica (Salokya),
2) l’approccio alla sostanza spirituale, che sta alla base dell’universo (Samipya),
3) l’assimilazione della forma della Divinità (Sarupya),
4) la liberazione e la definitiva unione con Dio (Sayujya).

L’alimento sattvico è determinante nell’acquisizione di questi quattro stadi della vita spirituale. E’ necessario che prendiamo qui in esame le implicazioni del concetto di cibo sattvico.

Ci sono persone che cadono nell’equivoco di ritenere che il cibo sattvico debba consistere in un’alimentazione esclusivamente a base di latte, yogurt, dolci e frutta e sono convinte di divenire “sattviche” consumando in gran quantità leccornie del genere. Sono assolutamente in errore. Una esagerata e smodata assunzione di latticini risveglia e accentua le qualità ragiasiche e tamasiche dell’uomo. Non si può definire “sattvica” una dieta straricca di latte, cagliate e “ghi” (burro chiarificato), in quanto questi alimenti portano ad una manifestazione della natura passionale dell’uomo.

A questo proposito, devo dilungarmi sulla natura della conoscenza umana e sui cinque ingressi della percezione sensoriale: cinque organi di senso, relativi alle cinque facoltà dell’udito, tatto, vista, gusto e olfatto. La protezione e lo sviluppo di queste facoltà sensoriali dipendono dal cibo sattvico assunto per bocca. Il tipo di cibo sattvico consumato dipende dai gusti personali. Ci si sente soddisfatti quando si è messo in bocca quel preciso tipo di cibo. Ma si dimentica che una parte incorporea del cibo viene assorbita anche per mezzo di altri organi si senso. L’effetto salutare del cibo sattvico sarà vanificato dall’ascolto di discorsi cattivi, se indulgete in maldicenze, se guardate immagini oscene, se venite a contatto con cose dannose e usate male l’olfatto. La mente e il corpo vengono guastati, contaminati e inquinati dal male. Perciò, il solo cibo sattvico non è una sufficiente premessa alla rigenerazione spirituale. Non si deve parlare del male. Si deve rifuggire dal condannare gli altri e dall’elogio di se stessi. L’adulazione di se stessi e l’autoesaltazione ritardano la crescita spirituale. Ai nostri organi sensoriali dobbiamo fornire cibo, suoni e visuali salubri. La lingua è destinata a cantare la gloria di Dio. Le orecchie hanno la funzione di pascersi delle gloriose manifestazioni del Divino.

A ciascun organo di percezione si deve provvedere il suo specifico sostentamento spirituale. Alimentazione sattvica, dunque, non significa semplicemente morigeratezza nel consumare latte, yogurt, ghi e frutta, ma pure dilettarsi di nobili pensieri, sacri suoni, visioni edificanti e conversazioni spirituali. Bisogna sviluppare una vista sattvica e delle visioni spirituali. Bisogna saper godere il “darshan” delle bellezze naturali e la divinità delle icone nei templi, evitando tutte le visioni ed i suoni che distraggono. Non si deve guardare a chiunque con occhio malizioso. Pensieri maligni generano occhio maligno. Gli occhi sono le finestre del cuore. Il cuore dovrebbe traboccare di amore e compassione. Una natura sattvica si sviluppa alimentando gli occhi con visioni sattviche.

Anche il senso dell’odorato è ugualmente importante. Al senso dell’olfatto vanno forniti dolci profumi. Andrebbero evitati tutti gli odori sgradevoli. Sugli altari dei templi, per creare un’atmosfera di santità, si fa uso di dolci profumi e si accendono bastoncini di fragrante incenso. Gli odori ripugnanti distruggono la santità. L’idea di santità è sempre associata a dolci profumi ed aromi.

La sensazione tattile, ovvero il senso del tatto andrebbe soddisfatta venendo a contatto fisico con i piedi di un santo. Vanno evitati i contatti con persone malvagie. Toccarle produce pensieri cattivi. La compagnia dei virtuosi (Satsang) è di importanza suprema. Il Satsang porta al distacco. Il distacco induce equanimità, la quale, a sua volta, conduce alla liberazione nella vita. Molto si può realizzare con l’ausilio del Satsang. Si coltivano buone abitudini e si condividono pie attività. Il Satsang santifica il corpo umano predisponendolo alla funzione di tempio di Dio. La tecnica spirituale di “Dhyana”, menzionata nella Bhagavad Gita, non può essere benefica, in assenza di una alimentazione completamente sattvica, estesa a tutto il corpo, vista, udito, odorato e tatto. Altrimenti, è solo un atteggiamento. Il vero valore e il significato della Meditazione dovrebbero essere chiaramente afferrati per evitare le insidie e i pericoli derivanti da una sua pratica erronea. (SSB 1979, 92-95)

La posizione del corpo

Dopo aver adottato una posizione comoda, dovete sedervi con la schiena dritta, in modo da dare libero corso ai movimenti dell’energia Kundalini. Questa energia è situata nella regione del coccige (Muladhara Chakra), come una radiosa corrente divina. La sua ascesa verso il Loto dai mille petali, che si trova alla sommità del capo (Sahashrara Chakra), porta l’uomo ai vari livelli di coscienza e al risveglio spirituale. Prima di giungere là, essa attraversa gli altri centri: lo Svadishtanam Chakra, che corrisponde all’ombelico; il Manipura Chakra, che corrisponde al plesso solare, cioè alla regione dello stomaco; l’Anahata Chakra, che corrisponde al cuore; il Vishuddha Chakra, che corrisponde alla laringe e l’Ajna Chakra, che corrisponde alla zona fra le sopracciglia.

Durante la meditazione, il meditante non dovrebbe chiudere ermeticamente gli occhi né tenerli completamente aperti. Dovrebbe guardare ad occhi semichiusi la punta del naso e concentrarsi sulla raggiante energia divina dell’Ajna Chakra. In questa beata disposizione d’animo, deve tenere le mani in modo che pollice ed indice si tocchino alle estremità (Chinmudra), mentre le altre dita di ambedue le mani sono tenute separate. Il pollice rappresenta Dio e l’indice l’Anima individuale (Jiva). L’Anima, combinata con le sue qualità naturali (guna), è condizionata dal tempo. Ma Dio è al di là del tempo e, perciò, tutte le influenze della natura materiale svaniscono allorchè l’essere vivente si fa uno con Dio.

Lo scopo della meditazione è proprio condurre all’unione dell’Anima con il Signore Supremo (Ishvara). L’essenza della triplice purificazione (triputi) consiste nella completa coesione fra le realtà dell’uomo (Jiva), di Dio (Ishvara) e del mondo (Prakriti). Divinità e unità nella molteplicità degli individui possono essere visualizzate adottando nella meditazione la posizione del Chinmudra.

(SSB 1979, 111-112)


L’obiettivo: la Mente

Due sono gli stati della mente: uno – Manas – è la mente impura; l’altro – Citta – è la mente pura. Quando la mente si lascia sottomettere dagli organi di senso, allora è impura. Quando invece esercita il suo controllo sugli organi di senso ed è subordinata all’intelletto (Buddhi), è pura. Entrambe queste condizioni sono aspetti della mente.

Facciamo un piccolo esempio.

Il fazzoletto che ho in mano è, per sua natura, bianco. Con l’uso perde questa sua caratteristica e allora diciamo che è sporco. Dopo che il lavandaio lo ha lavato, riprende il primitivo colore e, per noi, è di nuovo pulito. Orbene, la tela del fazzoletto, sporca o pulita, è sempre la stessa ed è la medesima stoffa che, per essersi contaminata, è diventata sporca, ma, una volta lavata e rimosso lo sporco, è stata candeggiata e diciamo che è pulita. Non è stato il lavandaio a farla diventare bianca, quando ne ha rimosso lo sporco, perchè, in realtà, il bianco è il colore naturale della stoffa. Similmente, quando la mente assorbe le impurità dagli organi di senso, la definiamo mente impura. Ma, quando la mente viene distolta dagli organi di senso e sono state rimosse le impressioni sensoriali, riacquista la sua purezza.

E’ in questo contesto che potete comprendere il significato di queste due definizioni: Citta e Manas. La mente libera dalla sporcizia e dalle impurità degli organi di senso è “Citta”. Quando invece si lascia attirare da essi e si inquina, è “Manas”. Manas non è altro che un groviglio di pensieri; è lo stesso procedimento del pensare, durante il quale la mente si contamina, perchè riceve dai sensi le impressioni impure, trasformandosi in Manas. Manas non ha una forma specifica; è la cosa che pensa.

Se distogliete la mente dagli organi di senso e la rivolgete a Dio, riuscirete a liberare la mente da ogni problema e sofferenza connessa con i pensieri impuri, che sorgono dalle impressioni degli organi di senso. Fate dunque ogni sforzo per volgere la vostra mente verso Dio, distogliendola dagli organi di senso. Questa si chiama Meditazione o Yoga, cioè unione con Dio. Questo è il metodo più adatto per purificare una mente inquinata e per restituirla alla sua originale purezza.

La mente ha bisogno di molta pace, proprio come il corpo ha bisogno di riposo. In che modo può ottenerla? Solo quando controllate il processo del pensare e ne rallentate il flusso, la mente sarà in grado di avere la pace. La mente cercherà sempre di sgattaiolare verso gli oggetti dei sensi, servendosi degli organi di senso, ed è proprio questa la causa dell’attività di pensiero. Se controllate questa inclinazione della mente all’evasione e la rivolgete invece verso l’interno, a Dio, i pensieri impuri diminuiranno. Così la mente troverà alfine la sua pace e voi potrete utilizzarla come si deve. Questo si chiama Abhyasa Yoga, ossia la pratica costante della disciplina, o lo yoga della costanza.

Concentrazione, Contemplazione e Meditazione

Come meditare e qual è il significato intrinseco di “Meditazione? Anzitutto bisogna aver fiducia nelle norme che guidano alla meditazione, perchè sia possibile raggiungerne gli obiettivi e comprendere le finalità. Molte persone interpretano in vari modi la parola “Dhyana” e prescrivono metodi diversi che generano una gran confusione negli aspiranti. Dhyana sta ad indicare la pratica o “sadhana”, per mezzo della quale il praticante (sadhaka) medita su Dio fino alla fusione dei tre componenti, ovvero l’oggetto della meditazione – Dio – il meditante – l’Io – ed il processo meditativo.

L’unione di questa triade è Dhyana, sul cui significato e sulla cui attuazione si sono oggi creati degli equivoci, perchè la si confonde con la concentrazione o con un complesso di programmi. Per acquisire concentrazione, non è necessario meditare, dato che lo si fa abitualmente: per bere, mangiare, scrivere, leggere e camminare occorre una certa concentrazione, la quale è sempre subordinata ai cinque sensi di percezione: l’udito, il tatto, la vista, il gusto e l’odorato. Per leggere il giornale, gli occhi devono guardare i fogli, le mani devono reggerli ed infine la mente, concentrandosi, riunisce in sintesi le impressioni raccolte e coordina tutte le azioni. Allora è possibile leggere il giornale. Se camminiamo per strada, dobbiamo prestare attenzione al traffico e verificare che non ci siano buche, serpenti o scorpioni ed anche per guidare un’automobile occorre una grande attenzione. La concentrazione, dunque, è un fatto abituale della vita quotidiana e non può essere confusa con Dhyana o meditazione.

Mirare al Divino, elevarsi al di sopra dei sensi e mantenere la mente ben al di sopra degli organi di senso: è questo che si deve intendersi per Meditazione. In definitiva, la Meditazione governa gli organi di senso, mentre la concentrazione è ad essi subordinata.

Vi faccio un piccolo esempio.

C’è una pianta di rose: ci sono le foglie, le spine, i rami ed i fiori. La capacità di far distinzione fra le spine, le foglie, i rami e i fiori è concentrazione. Dopo aver osservato la pianta in ogni sua parte, siamo in grado di identificare il fiore e di coglierlo evitando le spine. Colto che sia, non c’è più rapporto tra il fiore e le spine, le foglie e i rami. La separazione del fiore dalla pianta si chiama contemplazione. Se ora offrite il fiore a Dio, la pianta, i rami, la vostra mano e lo stesso fiore cesseranno di esistere isolatamente perchè tutto sarà unificato in Dio. L’offerta del fiore, che dà luogo alla scomparsa delle singole cose per lasciar posto solo a Dio, è Meditazione.

La vita è come un roseto. I rami sono le relazioni; le foglie sono le qualità o “guna” e le spine gli attaccamenti e desideri. Il fiore è l’amore (Prema). Tenete lontano il fiore dell’Amore dalle spine degli attaccamenti e dai rami delle relazioni mondane, è contemplazione. Nel momento in cui offrite questo amore a Dio, raggiungete l’unità dei tre aspetti. Questo è un puro Amore, perchè per ottenerlo si è staccato e ripulito da tutto ciò che poteva contaminarlo. Ciò che cogliete, dunque, è puro fiore d’Amore. (SSB 1973, 219-221)

Qualsiasi pratica di concentrazione in cui siete periodicamente impegnati, si focalizza di solito su un oggetto prescelto e si associa a una dimensione spazio-tempo. Al contrario, l’incessante pratica della meditazione è completamente libera dagli oggetti e dai fenomeni e trascende completamente le dimensioni di spazio e di tempo. Perciò, nella Gita la pratica costante della meditazione è stata definita superiore ad ogni altra pratica occasionale. Ma la maturazione della saggezza è ancor più grande della meditazione. La saggezza nasce da Vicharana, ossia dall’indagine interiore: la pratica dell’osservazione della natura essenziale, del cuore di tutte le cose.

Le tappe per il Samadhi

Come dev’essere svolta la Meditazione?
La prima tappa è la Concentrazione (Dharana). Dodici “Dharana” fanno una “Dhyana” (Meditazione). Dodici “Dhhana” equivalgono ad un “Samadhi”.
“Dharana” consiste nella ferma concentrazione visiva su un oggetto per 12 secondi. Dovete fissare un oggetto qualsiasi, una fiammella, un dipinto o una statua sacra per 12 secondi in completa e totale concentrazione, senza battere ciglio. Questa pratica è “Dharana”.
La pratica di “Dharana” prepara a “Dhyana”. La durata è Dhyana è di 12 “Dharana”. Ciò significa che il tempo della Meditazione dovrebbe corrispondere a 12’’ x 12’’ = 144’’, vale a dire 2 minuti e 24 secondi. “Dhyana” non consiste nello stare seduti in “meditazione” per ore. La vera Meditazione non richiede più di 2 minuti e 24 secondi. Soltanto dopo aver praticato correttamente la Concentrazione si può far bene la Meditazione.
Dodici “Dhyana” equivalgono ad un “Samadhi” (Estasi divina). Vale a dire, 144’’ x 12’’ = 28 minuti e 48 secondi, un tempo assai inferiore ad un’ora. Se si prolunga il “Samadhi”, può risultare fatale.

Queste sono le discipline praticate dagli yogi e nessuna Sacra Scrittura ne parla. Se intendete seguirle e praticarle in modo corretto, dovete cominciare dalla Concentrazione. A partire da questo momento, abituatevi a concentrarvi per 12 secondi al giorno. E’ molto importante per gli studenti. In passato, yogi come Aurobindo e Ramana Maharshi praticarono queste discipline. Ramana Maharshi era solito salire sul terrazzo e concentrarsi per dodici secondi su una stella particolare. In quello stato, anche la mente era stabilmente immobile.

Perseverando nella pratica della Concentrazione, svilupperete la capacità di meditare per 2 minuti e 24 secondi. Continuando la pratica della Meditazione, diverrete idonei a rimanere in uno stato di estasi (Samadhi) per 28 minuti e 48 secondi. Ma qual è il significato profondo di “Samadhi”? Non si tratta di uno stato di incoscienza o di un diverso stato di coscienza. Niente di tutto questo. Il vero significato di “Samadhi” è “Sama-Dhi”, ossia la condizione in cui l’Intelletto ha raggiunto l’equanimità. La capacità di rimanere imperturbati sia nel piacere che nel dolore, sia nel biasimo che nell’encomio, sia nel guadagno che nella perdita, sia nel caldo che nel freddo, è “Samadhi”, il frutto reale della “Meditazione”.

Esiste un giorno sacro in cui potete iniziare questa pratica yogica. Questo farà raffinare le vostre menti ed esalterà l’acume del vostro intelletto. Fino ad ora, non avevo ancora rivelato a nessuno queste cose. “Dhyana” è, per giunta, un processo estremamente facile. Ed il “Samadhi” lo è ancora di più. Ma è a causa di equivoci sul metodo da seguire che gli aspiranti si trovano in difficoltà. Molti credono che per meditare sia sufficiente star seduti per un certo tempo nella posizione del loto (Padmasana), senza curarsi di tenere a freno i vagabondaggi mentali. Così, se la concentrazione viene disturbata da una zanzara che va a posarsi sul naso, con ripetuti attacchi e il meditante fa un gesto di impazienza, tutti i benefici che la Meditazione poteva dargli sono perduti. Per mantenersi calmi e raccolti durante la fase meditativa, impassibili davanti a qualsiasi elemento di disturbo, bisogna sapersi concentrare. La Concentrazione permette il controllo dei sensi e purifica la mente; e, con la mente purificata, è possibile sperimentare il Divino. (SS 1989, 207-208)

La respirazione, So Ham e la forma

Il corpo fisico soggiace a determinati limiti. Per esempio, in esso si ripete un continuo processo di inspirazione ed espirazione. E’ stato provato che la vita può essere prolungata in dipendenza della durata del ritmo del respiro. Più rapido è il ritmo respiratorio, più breve è la durata della vita. Ci sono degli esempi che lo dimostrano. Gli elefanti e gli uomini inalano ed esalano il respiro 12-13 volte al minuto. Se l’uomo si attiene a questo ritmo può anche sperare di vivere fino a cent’anni. I serpenti e le tartarughe respirano secondo un ritmo di 7-8 volte al minuto. Di conseguenza, la durata della loro vita può raggiungere una media di 200-300 anni. Le scimmie, i cani e i gatti respirano da 30 a 40 volte al minuto. Perciò la loro media non supera i 12-13 anni. I conigli respirano ad un ritmo di 40-50 volte al minuto, e la loro vita a mala pena dura da 5 a 6 anni.

Più veloce è il ritmo respiratorio, più breve è la durata della vita e viceversa. Come regolare il respiro? Il respiro dovrebbe essere così leggero che, se fosse posta sotto le narici della polvere fine, non dovrebbe scomporsi minimamente. La pratica dello yoga serve a rallentare il ritmo del respiro fino a questo livello. (SS 1989, 207)

Nella parola SO-HAM, la lettera “So” sta ad indicare il Paramatma; ossia il Divino. “Aham” indica il Jiva, ossia l’uomo. Nella crasi di queste due lettere, si ottiene la pronuncia di “Soham”. Quindi, si perviene alla convinzione che Jiva e Paramatma vanno di pari passo. Meditare sulla parola “Soham” è una pratica comune nel nostro paese, finalizzata al riconoscimento dell’identità e dell’unità dell’uomo (Jiva) con Dio (Brahman).

Libera da forma e nome, essendo l’Uno senza secondo, rimanendo sempre pura e nell’unico ruolo di testimone, la Divinità risiede nel dominio dell’Atma e viene descritta con le lettere “Tat”. Quando l’uomo si concentra e medita su TAT, da questa sua meditazione uscirà TVAM. La parola ASI è sempre a portata di mano per fondere “Tat” con “Tvam”. La combinazione di queste tre parole dà origine alla sacra frase: “TATVAMASI”, il cui senso dovrebbe essere ben compreso. Ho già ricordato che “Tat iva tvam” indica la posizione dell’insegnante e che “Tvam iva tat” indica quella dello studente. L’insegnante spiega agli alunni il significato di “Tat” e lo studente, ricoprendo il ruolo del “Tvam”, comprende l’apparenza del “Tat”. L’unione fra chi insegna e ciò che viene insegnato è il destino del processo di insegnamento. Dobbiamo perciò eliminare le sensazioni e le convinzioni che aderiscono alle apparenze esteriori. La nozione del Divino deve rivelarsi ed essere unificata in Lui. Quali sono queste manifestazioni esteriori? Quelle relative ai corpi grossolano, sottile e causale.

Pronunciando il suono “Aham”, sono implicate tre qualità o guna: “sattva (purezza), “rajas” (attività) e “tamas” (inerzia). Questo suono, che corrisponde all’ego associato ai tre “guna”, si alterna fra i tre aspetti del corpo e si manifesta come Brahma, Vishnu e Maheshvara, tre differenti caratteristiche del mondo fenomenico. Tutto quanto vediamo e sperimentiamo in questo mondo materiale va considerato come Vritti, ossia una specie di lavoro. La stessa azione dell’ascoltare qualcuno è un processo che può andare sotto il nome di “vritti”. Invece, l’ascolto e la recitazione del Nome di Dio per diffondere sacre vibrazioni non sarà mai un’occupazione mondana. E’ qualcosa che sta fra Pravritti e Nivritti e fa si che queste due vengano ricondotte all’unità. Se volete trasformare gli aspetti mondani di Pravritti in azioni scevre da attaccamento, ossia di Nivritti, è necessario compiere alcune discipline (sadhana) e pratiche spirituali, che si possano ricondurre alla Meditazione o Dhyana. (SSB 1973, 218s)

Se avete Me come oggetto della vostra meditazione, sedetevi in una posizione confortevole, comodi ma non afflosciati, e lasciate andare la mente su storie buone o su qualche episodio estratto da storie sacre, in modo che i sensi si allontanino dai tentacoli delle preoccupazioni terrene e possano essere acquietati e sottomessi.

Poi con il nome di Sai sulle labbra, tentate di disegnare con il “pennello” del sentimento e con la “mano” dell’intelletto, un’immagine di Sai: lentamente dai folti capelli, al viso, al collo; dall’alto verso il basso, passando del tempo in contemplazione di tutti gli aspetti della forma, secondo il disegno che vi viene. Poi, quando l’effigie è completata, ricominciate dai piedi sino alla testa, in modo che la vostra attenzione non si allontani nemmeno per un attimo dalla Forma che amate e sulla quale volete meditare. (SSS V, 304)

Aum – il nome di Dio

Incarnazioni del Divino Amore!
L’indistruttibilità dell’Essere Supremo è un concetto accettato da tutte le religioni e da tutte le fedi. Se Dio viene accettato come l’Essere Eterno e l’Incantatore Cosmico, ciò è dovuto proprio alla Sua indistruttibilità (Aksharatva) è la Forma di Dio e il nome più adatto a questo Dio indistruttibile è “Aum”. AUM, il Verbo primordiale, è la quintessenza di tutti i Veda e la sorgente di tutte le Sacre Scritture (Shastra). Esso costituisce la base, il nucleo di tutti gli insegnamenti religiosi e delle conoscenze più svariate.
AUM si compone di tre lettere, ognuna delle quali ha caratteristiche profonde. “Aum” è la Parola primordiale, che dà vita a tutte le altre parole. Tutti i Veda, le Upanishad e i Purana hanno celebrato in molti modi il Pranava, ossia l’Aum. E’ impossibile a chiunque avere una piena conoscenza o anche solo fornire una descrizione completa della parola sacra “Aum”. E’ una parola che esprime in tutta la sua pienezza il Divino. Essa è la forma di Brahman percepibile all’udito, è Ciò che pervade l’universo degli esseri animati ed inanimati, è la Divina Luce che risplende, è la Parola, è l’Eterna Delizia, è il Trascendentale, è la Madre della stessa Illusione, la Coscienza Creativa di Brahman ed il Buon Auspicio. “Aum”, dunque, ha questi otto tesori divini, è divinamente prezioso e va identificato con il Nome di Dio.

Il mondo è soggetto a decadenza e a distruzione. Ciò nonostante, in questo mondo distruttibile l’Indistruttibile, il Brahman trascendentale Si manifesta. Pur permeando il mondo, Brahman non è soggetto a distruzione. Nel vaso c’è l’argilla, ma nell’argilla non c’è il vaso. I vasi sono il risultato di un processo di creazione e, perciò, è perituro. E tuttavia l’argilla esiste nei vasi. La bollicina d’acqua nasce dall’acqua stessa per un processo creativo e, perciò, torna a dissolversi. Nondimeno, anche in quella bollicina è presente dell’acqua come una sottile membrana che racchiude all’interno l’aria. In maniera analoga, l’Indistruttibile Si manifesta nella creazione e Si rende in essa presente insieme con il perituro. “Aum” esprime tutto questo.

Nel Ramayana, Lakshmana, Bharata e Satrughna mostrano le qualità espresse rispettivamente dalle tre sillabe A, U e M. Rama è la stessa personificazione dell’Aum. Nella Bhagavad Gita, Krishna dichiara di essere il Pranava, l’Aum dei Veda:

“O figlio di Kunti, Io sono il sapore dell’acqua, la luce del sole e della luna, la sillaba AUM nei mantra vedici.” (BG 7, 8)

Patanjali esaltò il Pranava come il nome di Dio più appropriato. Nella religione hindu, non esiste mantra o passo scritturistico che non sia radicato nella Aum. Si dovrebbe dunque cercare di capire il profondo significato del sacro Pranava, il Verbo che era in principio. Aum è un nome di Dio che può essere accettato universalmente. I Cristiani, nelle loro preghiere quotidiane, dicono “Amen”. Esso non è altro che una variante di Aum. “Aum” ha una pertinenza e una adattabilità universale, trascende tutte le barriere di tempo, spazio, religione e cultura, e può essere proferito da tutti gli uomini.

La vita è un fiume potente e i desideri costituiscono le sue acque. I pensieri sono le innumerevoli piccole onde di questo fiume. Le aspirazioni sono i coccodrilli che vi abbondano e le illusioni sono i suoi vortici. Soltanto uno yogi può attraversare un fiume tanto terribile, in quanto egli solo ha raggiunto il controllo sulla volubilità della mente, come afferma Patanjali. Il flusso d’acqua di un fiume normale può aumentare o diminuire, ma il fiume della vita, allargando continuamente le acque dei desideri, non si ritrae mai e può raggiungere una tale ampiezza da rompere gli argini e divenire una distesa d’acqua furiosa e incontrollabile. Per attraversare un tal fiume, dunque, è assolutamente necessaria una barca. “Aum”, il nome di Dio, è la barca che vi farà attraversare questo fiume. Gli antichi Rishi hanno attraversato agevolmente il turbolento fiume della vita con l’aiuto della barca del “Pranava”. Il “Pranava” ha il potere di salvare il mondo dal “pralaya”, ossia dal diluvio universale.
(SSB 1979, 124-126)

Perchè 21 OM?

Il compito di un Seva, ossia di colui che svolge servizio, va accompagnato ad una disciplina individuale, la cui osservanza va mantenuta quotidianamente con sincerità e regolarità. La recita del Suono Primordiale (Pranava) rappresenta una delle forme di tale impegno spirituale.
A Prashanti Nilayam, si è stabilito che la recita dell’”OM” deve essere ripetuta 21 volte, di primo mattino. Questo numero non è arbitrario, ma riveste un suo particolare significato.

L’uomo è costituito dai seguenti elementi:
- 5 Karmendriya (Organi di azione)
- 5 Jnanendriya (Organi di conoscenza)
- 5 Prana (Soffi vitali)
- 5 Kosha (Involucri della materia che racchiudono la Scintilla Divina, la Realtà).

In totale, 20. La recita della sillaba “OM” per 21 volte purifica questi 20 veicoli per rendere il 21°, l’uomo, pronto per la fusione finale con il Reale. Il principio della vita si fonde nel Supremo Assoluto. Il Jivatatvam o principio delle vita può essere raffigurato come il cocchiere dei 20 componenti, cavallo compreso. Infine, dopo la recita dei 21 OM, completate ripetendo tre volte “Shanti”. Questo chiude il processo di purificazione. Il primo “Shanti” è per la purezza del corpo, parte del Sé. Il secondo è per la purezza della mente. Il terzo è per la purezza dell’anima. La recita del Pranava vi tonificherà e calmerà le agitazioni della mente, rendendo più veloce la discesa della Grazia.

OM è il Suono Primordiale causato dalle vibrazioni del creato per mezzo del Volere emerso da Colui che è privo di attributi, il Nirakara, il Nirguna Brahman. Viene anche chiamato il Sabdabrahman, in quanto “Sabda” vuol dire “suono”. OM è un composto di tre suoni: A, U e M. Proprio come le lettere D, I, O prese insieme si pronunciano DIO, così le lettere A, U ed M si pronunciano OM. “A” vibra nell’addome, “U” nella lingua all’interno della cavità orale e “M” sulle labbra. Ma quando la OM viene pronunciata, il suono emana dalla regione ombelicale.

La OM va recitata lentamente e con decisione. Il suono deve somigliare a quello di un aereo che si va avvicinando a voi e poi vola via lontano: un suono inizialmente basso, in graduale crescendo fino a sfumare lentamente nel silenzio. Il silenzio che segue è un’esperienza che ha valore quanto il Pranava stesso. “U” è lo zenit, il monte Kailash che viene raggiunto dal suono adorante. “A” è il “Nadhi” (l’Ombelico), l’inizio. “M” è la fine.

Nello Sri Chakra, la figura mistica nella quale viene installato ed invocato il Parashakti, ossia il Principio dell’Energia Cosmica (e la Divinità che vi presiede) è la OM, il centro di tutto, attorno a cui ruotano tutti gli altri simboli. Anche l’uomo deve fare questa installazione. La OM è il vero principio vitale di ogni mantra e, metaforicamente parlando, di ogni uomo. il “Mantra” è ciò che può salvare l’uomo, che è solo “Mana”, ossia mente, per mezzo della quale egli può meditare sul “Mantra”. Potete ottenere questo “Pranavasadhana” osservando come il respiro entra ed esce dai polmoni, e prestando ascolto al mormorio “SO”, prodotto dal respiro quando entra, e al mormorio “HAM”, quando esce.

Dovete riflettere sul significato di So-Ham: “Quello io sono”. Chi siete? Voi siete Quello, una scintilla del Divino. Non siete il corpo, i sensi, la mente, l’intelligenza, ecc. con cui vi state identificando. Voi siete Dio, solo intrappolati dall’illusione di essere legati a questo corpo. (SSS X, 166-167)

I cinque involucri e l’io

Terra, Acqua, Fuoco, Aria, Etere, Mente, Intelletto ed Ego sono i primi elementi con cui si formò l’Universo. Il fango o la creta è l’elemento base con cui si modella un vaso e, perciò, è la causa materiale del vaso. Il vasaio, senza la cui idea (sankalpa) e applicazione non potrebbe nascere il vaso, è la sua causa efficiente. Allo stesso modo, Prakriti è la causa materiale dell’Universo e Brahman la sua causa efficiente. E’ per volere di Brahman che nella creazione hanno avuto origine infinite sfaccettature di questo Universo dinamico dalle molteplici forme e innumerevoli oggetti. E tuttavia dobbiamo ricordare che è Brahman colui che ha manifestato Se stesso in questo Infinito. Krishna esortò Arjuna ad ignorare la diversità nell’unità e a discernere l’unità nella diversità. Si deve comprendere la non dualistica natura atmica di questo mondo molteplice.
Dhyana conferisce all’uomo la capacità di riconoscere questa unità e di discernere sia l’Immanenza che la Trascendenza di Dio. (SSB 1979, 110-111)

I quattro stati di coscienza

L’unico onnipervadente Brahman permea tutto l’Universo degli oggetti animati ed inanimati. Questo Brahman onnicomprensivo ha assunto la forma udibile della parola primordiale AUM. In questo Sommo Parabrahman sono sintetizzati quattro inseparabili elementi: Vishva, Taijasa, Prajna e Turiya. Lo stato di veglia (Jagratavasta), è lo stato di coscienza ordinario ed è in relazione col mondo grossolano della materia. Fornisce una conoscenza empirica del mondo fenomenico, servendosi di sensazioni e di percezioni. Possiede diversi modi di conoscenza ed essi sono costituiti dai cinque organi di azione (Karmendriya), dai cinque organi di percezione (Jnanendriya), le cinque energie vitali (Prana), la mente (Manas), l’intelletto (Buddhi), la coscienza (Citta) e l’ego (Ahamkara). Questi 19 aspetti della conoscenza sensoriale o empirica nello stato di veglia si integrano fra loro. In sostanza, è questa conoscenza che brama ardentemente i piaceri del mondo materiale.

Lo stato di coscienza di sogno (Svapnavasta), ha la facoltà di riconoscere ed avere a livello subconscio una pallida idea della sacra esperienza di divinità e santità. E’ correlata ad aspetti più sottili della conoscenza ed esperienza umane. In questo stato si hanno impressioni più sottili delle esperienze di veglia.

Lo stato di Prajna (Prajnavasta) e quello di Turiya (Turiyavasta) hanno caratteristiche differenti. Il Prajnavasta è uno stato di coscienza trascendentale, in cui la dicotomia fra il grossolano ed il sottile scompaiono nella super-coscienza: rimane il puro “Prajna”, ossia la coscienza di Divinità. In questo stato, le facoltà di differenziazione e diversificazione della mente sono inattive. Ecco perchè si sostiene che il Prajnana è Brahman. E’ per venire incontro allo scalatore di questa vetta della Divinità che Krishna ha esposto nella Bhagavad Gita la “Sadhana di Dhyana”, il sentiero della Meditazione. Nel Prajnavasta tutti i desideri mondani e le smanie vengono sublimati nella beatitudine di un’esperienza spirituale. La brillante luce del Prajnana risplende stabilmente in questo stato di coscienza più elevata.

Il Turiyavasta è il più alto stato di coscienza, dove si sperimenta l’essenza dell’Atma. Il discepolo fa esperienza della tranquillità, delle Divinità e della non-dualità. Si tratta di uno stato di supercoscienza puro, placido e stabile, in cui tutti gli attributi discriminanti e differenziali sono trascesi e assorbiti nell’eterna ed assoluta Realtà di Brahman.
La recita o il canto dell’AUM (Omkara) contempla la fusione dei tre suoni primordiali: A, U e M. Queste tre lettere rappresentano rispettivamente lo stato di coscienza di veglia, di sogno e di sonno profondo e simboleggiano anche il Brahma, Vishnu e Mahesvara, la Trinità che personifica le realtà corrispondenti ai tre stati di coscienza sopra menzionati. Come in un rosario un filo trapassa i grani per tenerli insieme, così Brahman trapassa tutte le anime e le fa essere interdipendenti e correlate fra loro.

L’autorealizzazione consiste nell’immediata, intima e uniforme comprensione dell’Assoluto, suprema ed integrale realtà di Brahman: è una mistica esperienza che oltrepassa mente, spazio e tempo. Dhyana è un sussidio per raggiungerla. L’occhio non può vedere se stesso. Allo stesso modo, l’Atma non può vedersi. Se una bambolina di sale viene perduta nelle profondità del mare, vi si scioglie e diventa irrecuperabile. Così pure, il Jivatma che cerca il Paramatma perde la propria individualità e identità. Brahman è un oceano che non si può scandagliare. L’anima di una persona cha va in cerca di Dio diviene una con Dio. L’Atma e il Paramatma sono ontologicamente identici e non duplici. Non sono che aspetti del livello di coscienza più elevato.

Nella Meditazione, la mente, l’intelletto e i vari sensi sono trascesi per mezzo dell’autocontrollo. Nello stato superconscio di Dhyana, tutti i dualismi, le dicotomie, le differenze e le relatività scompaiono. Dhyana è sinonimo della conoscenza assoluta della Divinità: è una visione ed una via verso il Divino, che conduce al Sat-Cit-Ananda, ossia alla Realtà integrale dell’Essenza-Coscienza-Beatitudine. Essa fa raggiungere la beatitudine senza fine, conferisce la beatitudine dell’Atma ed ottiene all’uomo la suprema beatitudine e la beatitudine dell’assenza di dualismo.

Esperienze di Meditazione

Un discepolo avrà diversi tipi di esperienze durante la meditazione. Quando egli è assorto nella Divinità ode suoni di ogni genere. E’ come se sviluppasse una specie di percezione extrasensoriale. Sente dei suoni di strumenti musicali come la vina, il mirdanga ed il flauto. Queste dolci melodie sono simbolo di Dio che prende forma. Sono i risultati iniziali di Dhyana. Durante i primi stadi della meditazione, tutti gli organi sensoriali diventano ipersensibili e questa acutizzazione della sensibilità fa sì che il meditante abbia delle reazioni ai suoni e alle visioni straordinarie. Col passare del tempo questa ipersensibilità, ovvero questa facoltà di percezione extrasensoriale si raffina nella più alta facoltà di ascoltare la Voce stessa del Silenzio, il suono primordiale del Divino Pranava. Il discepolo è in ascolto della ripetizione e dell’eco della Voce Primeva: AUM. Così egli sperimenta l’ineffabile ed inesprimibile beatitudine dello stato di Supercoscienza o Turiya.

Durante la meditazione profonda, alcuni praticanti sentono come se il loro corpo fosse diventato molto pesante e non riescono a muoversi liberamente. Alcuni altri, invece, sperimentano una sensazione di estrema leggerezza e levitano verso l’alto. Altri ancora hanno la sensazione di tremore e brividi. Il discepolo dalla mente tenace e salda non si farà innervosire da queste fantastiche esperienze paranormali, ma continuerà indisturbato la sua disciplina.

Paramahansa Ramakrishna attraversò tutti questi stadi di meditazione, dall’avente forma al privo di attributi. Nel corso della sua evoluzione spirituale la Madre Divina gli Si rivelò sotto la forma di Kali. Ma l’Atma è privo di forma. Perciò si consiglia al discepolo di lasciare alle proprie spalle tutte le forme e i nomi e di tentare l’esperienza del Brahman Senza Forma. L’Assoluto Brahman privo di forma e attributi concede la più elevata estasi spirituale. Il meditante rimane incantato e rapito dal divino afflato del Brahman senza attributi e sperimenta la beatitudine perfetta.

Un novizio deve incominciare la meditazione su una forma di Dio. Osservi tutte le norme, sia puntale e regolare nella sua disciplina. Un alberello deve essere protetto dagli animali. Bisogna mettergli attorno una recinzione, affinchè possa crescere fino a divenire un grosso albero. Il recinto non sarà più necessario quando sarà un enorme albero. Similmente, norme e regolamenti sono necessari ad uno che si trova alle prime armi con la meditazione, mentre un discepolo avanzato non dipende da sostegni esteriori, perchè può andare in trascendenza ogni volta che lo desidera. La meditazione gli è spontanea ed abituale.

Dhyana non va confusa con Dhrana che è semplice concentrazione. Il primo stadio di concentrazione dovrebbe essere portato a termine dalla contemplazione e dal fatto che si è assorti. Questo essere assorti conduce alla meditazione. La meditazione non è monopolio di qualche particolare religione. E’ un programma universale e pratico per ottenere la conoscenza uniforme di Dio. (SSB 1979, 99-103)


La mente trema, è agitata,
difficile a sorvegliare,
difficile a drenare,
L’intelligente la scaglia alla mira
come un arciere la freccia.

Come un pesce tratto dall’acqua
e buttato sulla sponda,
si scuote la mente
per sfuggire al dominio della mente.

Dhammapada, Cittavaggo 33-34